La mafia non esiste più. Almeno in Italia. Perché se esistesse, come sostengono alcuni giornalisti, i magistrati, i poliziotti, le associazioni antimafia e antiracket, di sicuro il dibattito politico sarebbe pieno di proposte, discussioni, idee sul contrasto ai clan e al crimine organizzato. Di conseguenza, la storia degli ultimi governi racconterebbe pagine e pagine di leggi, azioni, misure destinate a rendere imprescindibile, in ogni ambito e con ogni mezzo, la lotta alle mafie in tutto il Paese, quartiere per quartiere, città per città.
Se la mafia esistesse ancora, la campagna elettorale conclusasi con il voto del 4 marzo scorso avrebbe messo al centro di ogni programma e confronto politico la lotta alla criminalità organizzata, in quanto priorità assoluta per un Paese intenzionato a rinascere e liberarsi dalla morsa del potere mafioso. La mafia dunque non esiste più, se è vero che tutto questo non si è visto e non si vede tuttora.
Eppure, guardando la realtà senza i filtri appannati della classe dirigente attuale, le mafie non solo appaiono vive e vegete, ma sembrano sempre più organizzate, radicate, oppressive, sfrontate. In ogni area del Paese si fanno sentire, alzano la testa, gestiscono, manovrano, minacciano. Hanno eserciti di complici e professionisti più o meno insospettabili, hanno avvocati potenti che ne difendono i rappresentanti più attivi, hanno affiliati spietati che parlano e agiscono muovendosi con un inaudito senso di impunità. La galera è come sempre una prospettiva che si accetta e non spaventa, i territori sono campi di sterpaglie che, anche se ripuliti di tanto in tanto dall’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, si ripopolano in fretta.
Ci sono zone che sono invalicabili per un normale cittadino ma anche per una pattuglia della polizia o dei carabinieri. Le mafie, insomma, prosperano, trafficano, controllano la droga, le estorsioni, il gioco d’azzardo, si infilano sempre più dentro l’economia e la politica, spostano voti, favoriscono il sorgere di alcune attività imprenditoriali, controllano aziende, minacciano aree di pregio ambientale, superando con fiamme e incendi l’ostacolo di vincoli di riserva o di area a protezione speciale, gestiscono stabilimenti balneari, discoteche, luoghi di svago, inquinano il settore dell’agroalimentare.
Le mafie sono la minaccia perenne alla vita dei cittadini, anche quando non sparano come un tempo, anche quando sangue e polvere da sparo o esplosivo non macchiano quotidianamente le strade della democrazia. Eppure, non se ne parla. Politicamente, nella infinita retorica che circonda il tema della sicurezza, non si nominano mai i clan, al massimo ci si limita a commentare qualche sentenza, magari relativa al passato, come quella importantissima sulla trattativa Stato-mafia. Per il resto nulla, tutta la violenza verbale e l’interesse pubblico sono concentrati sui migranti, sui rifugiati, sull’accoglienza, ossia su un tema che riguarda semplicemente degli esseri umani che, per la grandissima parte, sono brave persone, disperati in cerca di pace e normalità.
Non è un caso se, con riferimento all’ultima esperienza di governo, il ministro dell’Interno verrà ricordato esclusivamente per la sua campagna muscolosa contro i disperati e per i suoi accordi indecenti con la Libia e con chi viola i diritti umani. Non certo per il contrasto alla mafia, alla quale non è stata riservata alcuna dedica speciale, alcuna misura straordinaria da recapitare a chi gestisce il malaffare, così come non sono stati creati strumenti da assegnare a chi combatte sul campo il crimine organizzato. Eppure da Foggia a Ostia, da Siracusa a Trapani, dal Salento alla Brianza, dalla Calabria fino a Padova, dalla Campania all’Emilia Romagna, la cronaca di questi ultimi anni ci ha mostrato una criminalità forte, radicata, diffusa, pericolosa.
A contrastarla, accanto a forze di polizia e magistrati, ci sono stati alcuni imprenditori ostinati e decisi a non piegarsi e tanti giornalisti coraggiosi che hanno cercato di svelare, hanno denunciato e messo a nudo il sistema, i volti e gli intrecci delle varie famiglie mafiose. E per questo si sono presi le minacce, gli attentati intimidatori, gli avvertimenti agghiaccianti. I casi di Paolo Borrometi e Federica Angeli sono solo gli ultimi di una lunga serie in un Paese che, preso dalla smania xenofoba della sicurezza, si è dimenticato del vero problema, del vero rischio. Un Paese che magari si riempie di ridicolo giustizialismo dinnanzi a un candidato destinatario di una semplice indagine per reati amministrativi o colpevole di un reato “politico” risalente a 50 anni fa, ma poi rimane molle, inerme di fronte al disinteresse del mondo politico nazionale rispetto a qualsiasi forma di lotta concreta alle mafie.
Siamo talmente lontani dal percepire la criminalità organizzata come un problema centrale, che non riusciamo ancora a emarginare quei rappresentanti politici che, per salire al potere, praticano i soliti, antichi meccanismi dello scambio. Tra meno di un mese ci sarà il ventiseiesimo anniversario della strage di Capaci e torneremo a sentire qualcuno, là in alto, parlare di mafia, di lotta alla mafia, di regole, azioni, necessità urgenti. Lo faranno in tanti a Roma e lo farà anche, a Palermo, il capo di una maggioranza di governo dilaniata da arresti e dalle accuse pesanti nei confronti di molti deputati della stessa area.
Dirà le solite cose. Come tutti. Senza mai ipotizzare un passo indietro, o quantomeno un po’ di pulizia ex post di quelle liste di candidati che non aveva voluto pulire nonostante in molti gli avessero fatto notare numerose presenze discutibili. Non accadrà nulla, come sempre. Perché la retorica serve a questo. A coprire, con il copione anestetizzato di un giorno, la vergogna di tutti gli altri giorni. Quelli nei quali la mafia, come per magia, scompare dagli occhi delle classi dirigenti e, improvvisamente, torna a non esistere più.