Gli incubi sono pietre lanciate nel sonno di un bambino. Fanno scoppiare le lacrime e rigano le notti di chi non ha ancora piena coscienza del buio del mondo. Ci sono incubi che ricorderai per sempre, anche dopo venti o trent’anni. Sono rimasti i segni di quelle paure, che oggi hai razionalizzato ma che all’epoca erano mostri pronti ad assalirti non appena si spegneva la luce. Con un piccolo sforzo riesci a sorriderci su e ricordi quando, da bambino, cercavi le sicurezze nei tuoi genitori pronti a soccorrerti al tuo primo, improvviso lamento di paura: “Sono qua io, tranquillo, era solo un brutto sogno”. Brutto sogno, dicevano mia madre e mio padre. Un’espressione più accettabile, meno inquietante, anche foneticamente, rispetto alla parola incubo. L’importanza del linguaggio, i suoi effetti psicologici e sociologici, qualcosa a cui devi essere iniziato da subito per essere educato al rispetto verso gli altri, verso ciò che il mondo etichetta con parole orrende.
La parola incubo la impari dopo, quando sei più grande, quando sei autonomo e sai che non sei più soltanto parte della tua famiglia ma anche e soprattutto di uno Stato. E se pensi a una situazione nella quale hai bisogno di soccorso, ti aspetti che in tuo aiuto accorra proprio quello Stato. Immagini le forze dell’ordine, il personale medico, i magistrati. Sicurezza, cura, giustizia. Anche se commettessi uno sbaglio, ti aspetteresti che, qualsiasi errore tu abbia fatto, quando questi attori statali ti prenderanno in consegna nessuno potrà farti del male, nessuno potrà infilarti in un tunnel violento che si concluderà con la tua morte.
Lo avrà pensato anche Stefano Cucchi, avrà immaginato che il suo errore lo avrebbe saldato davanti a un giudice, tra accusa e difesa, tra ammissioni e attenuanti. Chissà se avrà promesso a se stesso di non sbagliare più una volta che era finito in carcere, tra le mani della giustizia. Di sicuro non ha avuto nemmeno il tempo di dimostrarla questa sua intenzione, non ha potuto nemmeno aspettare una seconda udienza, perché è stato ucciso prima. Un incubo durato sette giorni. Ci è entrato senza immaginare che non ne sarebbe mai uscito. Niente sicurezza per lui, nessuna cura. La giustizia non nominiamola neanche, perché in questa storia non ve n’è mai stata traccia. Né dopo l’arresto di Cucchi, né durante il processo, né dopo l’assurda assoluzione degli imputati, né adesso che la procura di Roma difende i suoi magistrati e il loro operato.
L’incubo è ancora in corso, nemmeno da morto a Stefano è consentito uscirne. Il suo corpo smunto, le ecchimosi, le fratture, le lesioni sono ancora su questa terra, impresse su foto che le istituzioni italiane non vogliono nemmeno voltarsi a guardare. Vogliono lasciarsele alle spalle, insieme al dolore procurato a un ragazzo, ai suoi amici, alla sua famiglia. Non c’è giustizia. Chissà quale prezzo bisognerà pagare per farla in questo Paese nel quale, se indossi una divisa (in questo caso anche un camice), hai la garanzia non di essere affidato alle mani sicure dello Stato per pagare il tuo conto, ma di ottenere piena impunità, di non varcare mai la porta di una cella in veste di detenuto. Se hai una divisa, poi, potrai contare sul diritto di infierire ancora una volta su chi ha già dovuto subire il dolore di una perdita e non ha nemmeno potuto sapere chi l’ha causata.
Così, in questo Paese, si consente, senza repliche, a un sindacato e al suo rappresentante, di annunciare, con un discorso dai toni acidi, volgari e oltraggiosi, querela contro Ilaria Cucchi. Una querela che avrebbe come motivazione il fatto che “l’insieme delle dichiarazioni” rese dalla sorella di Stefano Cucchi, secondo il Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), esprimerebbero la volontà di “istigare all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza”. Incubo. Questa volta l’incubo, del tutto personale, consiste nel percepire, leggendo anche il resto della dichiarazione dell’esponente sindacale, l’assoluto assottigliamento della dimensione umana, non solo quello atavico della difesa di corpo, ma quello diffuso di una società che antropologicamente fa dietrofront e si volge alle sue oscurità più infime.
Il rappresentante del Sappe non solo mostra i segni di questo dietrofront nelle irrispettose battute rivolte a Ilaria Cucchi, ma dimostra anche l’incapacità di comprendere che, di fronte a una donna che non ha mai generalizzato anche se avrebbe tutte le ragioni di farlo, sono le sue parole (così come quelle di un altro sindacato di polizia, il Coisp) e l’atto di querela annunciato dalla sua organizzazione sindacale a fomentare, da soli, l’odio verso l’intero corpo di polizia o verso alcune sue parti. La querela, pertanto, dovrebbe rivolgerla a se stesso e a chi, nel suo corpo di appartenenza, ha scelto di coprire la verità.
Perché, se sulle prove o sulla loro insufficienza, la magistratura può fare le sue scelte incomprensibili e giocare con le interpretazioni, ottenendo persino il plauso del procuratore Pignatone (che in meno di due ore dall’incontro con la famiglia Cucchi è stato capace di leggere le carte di un intero processo e dare ragione ai suoi colleghi…), c’è un fatto su cui non sono ammissibili discussioni: Stefano Cucchi è stato ucciso.
Travolto dentro un incubo avvenuto all’ombra di un ipotetico Stato di diritto, laddove la violenza sguazza nella sua acqua sporca e mostra lo sfacciato ghigno dell’impunità. E urla barbaramente soffocando altre urla che ci ricordano che l’incubo di Stefano Cucchi è anche il nostro, quello potenziale di tutti noi, dei nostri amici, dei nostri familiari, dei nostri figli. Un incubo nel quale tutti noi potremmo entrare e dal quale difficilmente i nostri genitori, con dolcezza e cura, avrebbero la possibilità di svegliarci e salvarci.