Quando tutto sembra inutile, dentro di te si combattono battaglie furiose, tra il vecchio te e il suo figliolo o nipote, uno scontro generazionale tra i tuoi te stessi allevati dal tempo. Confronto duro ma senza offese o insulti, civilmente, faccia a faccia e senza comitati di saggi a valutare, verificare, proporre. Perché dentro di te le cose sono serie e non si può tergiversare, poiché l’interesse principale è, in ogni caso, farti respirare, nutrire, camminare. Che domani devi comunque alzarti e andare a lavorare, fare il tuo dovere, che non puoi mica abbandonare un piede, una mano, un osso, lo stomaco o il cuore da qualche parte, né fermarli in attesa che prevalga una strategia interiore, una soluzione accettabile. Equivarrebbe a morire. Suicidandosi. D’altra parte, l’individuo ha esigenze quotidiane, che ci sia o meno uno Stato degno di permetterne il soddisfacimento.
Però, al contempo, quell’individuo è anche parte del “corpo” di quello Stato, dove i dissidi non si risolvono, si annacquano nei conflitti, nelle posizioni precostituite, negli interessi egoistici di chi vuole il potere per sé, nelle commissioni inutili e contraddittorie, nella debolezza manifesta del “cervello” che detta le regole. E quell’individuo, nell’attesa di una soluzione, è come quel piede o quella mano, quell’osso, quello stomaco, quel cuore che rimangono lì, abbandonati, parcheggiati. Come faranno a sopravvivere? Tra le urla, le meschine rese dei conti, le metastasi risvegliate che si aggirano attorno agli “individui/organi” come belve fameliche che rinascono dall’inverno rigido e dal rischio di estinzione, ci si dimentica di tutto il resto. Si accantona l’essenziale, per ricoprirlo con i lustrini di uno spettacolo mediatico.
Così, mentre nei bar si parla di finanziamenti ai partiti e di auto blu, di Grillo e di Bersani, di Berlusconi e Monti, di Napolitano e dei saggi (un vero oltraggio definirli in maniera tanto nobile), in uno di quei bar, uno dei tanti che si affacciano sulle stazioni ferroviarie, al riparo da una pioggia sintomatica, vedi entrare un uomo privo della metà delle sue gambe. Striscia, con un movimento ondeggiante e lento, si trascina fino al bancone, troppo alto per lui, e ordina un caffè con la testa che arriva appena all’altezza delle tazzine. Beve d’un fiato quel suo caffè, paga ed esce, facendosi largo tra i tanti avventori che sono in fila per una pizza prima di una partenza per chissà dove.
Si rituffa nella pioggia e si allontana, ondeggiando nei suoi vestiti zuppi, in quel giaccone sporco che lo ricopre e che ha lo stesso colore dei suoi pantaloni a metà, chiusi in basso da due pezzi di stoffa morbida e imbottita, come quella delle ginocchiere dei giocatori di pallavolo. Sono le “scarpe” per quel che resta delle sue gambe. Lo guardo andare via, immobile nel mio pensiero per quella povertà, per una miseria che non ti permette protesi, né sedie a rotelle. E chissà a quale nazionalità appartengono la sua lingua e la sua storia. Accanto a me, un ragazzo africano in partenza chiede alla banconista se può mangiare con un “ticket”, qualcosa che probabilmente ha sentito dire, ma non ne ha con sé e la banconista taglia corto: “Non puoi”. E allora lui, deluso, opta per un caffè, che un amico gli offre.
Ma cos’è questa miseria, mi chiedo? Come fa ad esistere, ad essere visibile alle otto di sera di un giovedì qualunque, se tv e giornali non ne parlano? Come può essere così quotidiana e facile da incontrare, ovunque, in qualsiasi momento, se nell’agenda politica, nei tanti discorsi e nei programmi elettorali non se ne parla e non se n’è parlato per niente? Non è la casta, non sono i “ladri”, non partecipano alle conferenze stampa post consultazioni, non si esibiscono in diretta streaming, né aprono i blog e le testate on-line. Non esultano per un politico non eletto, né si lamentano o protestano, magari non votano neanche. Ma barcollano sul proprio presente, strisciano portandosi dietro la disperazione, viaggiano verso uno sfruttamento qualsiasi, come fosse normale, ovvio, scontato.
Sono visibili, di carne, di cuore e cervello, li incontri, ci parli, sono stranieri e italiani. Non vivono nei cortei, nei movimenti, non gli interessa più. Al massimo cercano un portico freddo sotto cui adagiare il silenzio, nella maniera più discreta possibile. O una parrocchia o un dormitorio. Non hanno scelto di vivere così, questa è la grande balla che amiamo raccontarci. Sono padri di famiglia, lavoratori, migranti o italiani, gente che ha perso tutto o gente che ha dovuto lasciare tutto. Sono gli scarti della società globale, nell’epoca della crisi. Sono individui, parti del corpo di quello Stato che cincischia, parlando di tagli agli sprechi, di legge elettorale, di lotta all’ingiustizia, di errori del passato, di democrazia del web, di “uno vale uno”, ma che poi non decide, anzi spreca centinaia di milioni tornando al voto (perché è inevitabile che avvenga).
Parti del corpo dello Stato che vengono a loro volta spezzettate, mutilate e lasciate lì, in un angolo, a cicatrizzare la ferita o a provarci, perché non è detto che ci si riesca e si sopravviva, magari trascinandosi e ondeggiando in una sera di pioggia, dentro a un bar affollato, di fronte all’ingresso di una stazione qualsiasi. Mentre gli altri urlano, dibattono, si scansano, litigano, si riuniscono, con il loro occhio distratto che cade verso il basso solo per un istante, il tempo di un caffè sorseggiato con la testa all’altezza del bancone, di due monete lasciate in fretta e un passo privo di scarpe che volta le spalle e torna al freddo, scomparendo nell’oscurità di una strada lontana dal brusio, dalle luci e dai profumi del cibo adagiato dentro le vetrine.
L’umanità è uscita di scena. Tutto il resto è show.