Cresce l’allarme e si acuiscono le preoccupazioni nei territori minacciati dalla corsa al petrolio e al gas, che la pubblicazione del dissennato decreto “Sblocca Italia” rende imminente. All’esultanza incontenibile dei petrolieri e delle loro associazioni, che vedono aprirsi nella penisola italiana grandi praterie ed enormi distese marine, per realizzare il saccheggio del suolo e del sottosuolo e per sconvolgere l’ecosistema anche delle aree più incontaminate del nostro mare, si va contrapponendo una vasta rete interregionale di associazioni ambientaliste, comitati e istituzioni locali che non intendono subire uno scempio messo in moto, con superficiale e colpevole arroganza, dal governo Renzi. Accentramento delle decisioni a livello ministeriale, svuotamento del potere di interdizione e di controllo delle regioni sulla valutazione di impatto ambientale (VIA) dei progetti delle imprese, estromissione dei comuni e delle comunità locali dalle decisioni sul futuro dei loro territori: sono gli elementi scandalosi di una deregulation selvaggia e autoritaria.
Sotto i colpi di maglio di una logica distruttiva, utile solo al business delle compagnie petrolifere, si punta a cancellare le reali vocazioni dei territori, il valore di realtà produttive fondamentali, dall’agricoltura alla pesca, la tutela e la valorizzazione dello straordinario patrimonio paesaggistico e naturalistico dell’Italia, la forte valenza turistica e culturale dei luoghi che si vuole contaminare e alterare. È ciò che, con normative meno permissive, è stato già perpetrato in tante aree del Paese, anche per colpa di governi regionali incapaci o complici. Lo sanno le popolazioni della Val d’Agri, in Basilicata, dove Eni, Shell e Total hanno deturpato e compromesso l’ambiente e messo a rischio la vita delle persone; lo vivono da anni i cittadini di Gela e di Ragusa che, per l’estrazione di poche migliaia di tonnellate di petrolio bituminoso, hanno subito un forte degrado e un pesante dissesto ambientale. Per i razziatori di giacimenti poco importa che le quantità di idrocarburi da estrarre siano enormi o di modesta quantità; il ricavo per loro è sempre garantito.
Ciò che però conta sapere è che l’Italia, se venisse realizzato questo piano folle, si trasformerebbe in un mostruoso panorama di stazioni di pompaggio, serbatoi di stoccaggio, torri fiammeggianti che ammorberebbero l’aria e il suolo con gli agenti inquinanti, oltre che oleodotti che sventrerebbero anche aree di riserve naturali. È importante quello che sta avvenendo nei territori, come dimostra la rivolta delle comunità e delle associazioni ambientaliste della Basilicata, che vogliono fermare i nuovi progetti Eni-Shell di nuovi pozzi (Caldarosa 2 e Caldarosa 3) in un’area comunitaria che comprende zone Sic (Siti di interesse comunitario) e Zps (Zone a protezione speciale), o quelli della Total per due nuovi pozzi a “Tempa rossa”, nella valle del Sauro. O come la denuncia del forum acqua comune che vede minacciata la costa abruzzese con la possibile installazione di una piattaforma della Petroceltic Italia, filiale della irlandese Petroceltic International, a 4 miglia appena dal litorale. E ancora le iniziative dei sindaci e dei comitati per impedire in Irpinia, a Gesualdo, la trivellazione di un pozzo (progetto Nusco della Italmin exploration) a ridosso del centro abitato, o il fronte compatto in Sardegna, dove è stato bocciato dalla giunta regionale il progetto Eleonora della Saras di Moratti per la trivellazione esplorativa di un pozzo di metano a 400 metri dal centro abitato.
In quest’ultimo caso, però, i comitati e le associazioni devono intensificare le iniziative per impedire che venga autorizzata l’istanza di prospezione della Schlumberger, che verrebbe realizzata in un’area marina di 20992 km2 , nella zona marina E, da Capo dell’Argentiera ad Alghero, lungo la costa occidentale. Importantissimo, dunque, il ruolo che stanno svolgendo in tutte le regioni i movimenti No triv, che stanno assumendo iniziative sul piano della mobilitazione e dell’azione giudiziaria. In Sicilia, il 27 maggio scorso, il ministero dell’Ambiente ha riconosciuto la compatibilità ambientale del progetto “Offshore ibleo” dell’Eni. Esso comprende, come documentato da Greenpeace, due perforazioni esplorative (Centauro1 e Gemini1), che distano 13,5 e 15 miglia nautiche dalla costa di Licata, e sei pozzi di produzione (Cassiopea1 e Argo2). I pozzi Cassiopea distano dalla costa della provincia di Agrigento tra le 12 e 12,5 miglia; Argo2 poco più di 11 miglia. E poi oleodotti, una piattaforma (la PresiosoK a circa 5,6 miglia dalla costa) e a terra un’area di stoccaggio, a pochi chilometri da Gela e a ridosso di un’area Sic.
Come è evidente, nessuna preoccupazione per le conseguenze sulle riserve ittiche, sull’habitat marino, né alcuna approfondita valutazione – come evidenzia il documento di Greenpeace – del rischio geologico, compresi gli eventuali rischi di subsidenza (abbassamento del fronte costiero). Contro questo totale disprezzo delle più elementari norme di precauzione e di indagine, si è determinata un’importante reazione. È stato infatti inoltrato un ricorso al Tar del Lazio, non solo dalle associazioni ambientaliste e di difesa del patrimonio paesaggistico (Greenpeace, WWF e Legambiente insieme a LIPU Birdlife Italia, Italia Nostra, Touring Club Italia), ma anche da altre associazioni di categoria e dalle istituzioni locali (Legacoop Pesca Sicilia, ANCI Sicilia e i comuni di Licata, Ragusa, Scicli, Palma di Montechiaro e Santa Croce Camerina), contro il decreto 149/14, emanato dal ministro dell’Ambiente, che sancisce la compatibilità ambientale del progetto “Off-shore Ibleo” di ENI.
Una scelta importante per allargare l’area di contestazione e di opposizione contro tutte le nuove istanze che riguardano attività di prospezione e di estrazione di gas e petrolio nel canale di Sicilia; circa 14 come indica il documento. Occorre allargare il coinvolgimento di tutte le comunità siciliane, non solo per impedire nuove catastrofiche avventure in una delle aree marine più ricche di biodiversità e di un delicato sistema geologico, ma anche per bloccare, contro l’insipienza e il clamoroso cedimento del governo Crocetta alle bramosie dei clan degli idrocarburi, altre iniziative in atto sulla terraferma (Eni e Irminio) in altre aree della Sicilia come Scicli e Biancavilla. Anche nell’area di Sud-Est, tra Avola, Noto, Capo Passero e Pozzallo, è necessario allargare la mobilitazione.
Già lo storico comitato No triv di Noto, attraverso un suo documento, ha lanciato la sfida e l’allarme e con esso tutte le associazioni che hanno combattuto la difficile battaglia contro le trivellazioni nell’area degli iblei, (Natura Sicula, Associazione Albergatori di Noto, Ambiente e Macchia Mediterranea, Agenda 21, Sciami, NotoAmbiente, Archeoclub, Ente Fauna Siciliana, Case Sparse dell’Agro Netino, Acquanuvena) salvaguardando il dna prezioso di un territorio incomparabile. Ora bisogna agire per creare dighe insormontabili sul mare di quell’area. Orde di nuovi pirati, dal cuore nero e dagli artigli affilati, sono alle porte (la Schlumberger Italiana, filiale della texana Schlumberger Oilfield Services, la Transunion Petroleum Italia, interfaccia della britannica Transunion Limite, ed altre ancora) sono pronte a sconvolgere con le loro attività questa estesa fascia marina per migliaia di chilometri all’interno e a ridosso delle 12 miglia. Altererebbero con le loro tecniche di prospezione (l’airgun) i fondali, l’habitat; colpirebbero in modo letale la fauna, riverserebbero sulle coste gli effetti disastrosi delle loro operazioni.
È necessario allora che tutti i comuni, non solo Noto che con grande coerenza ha preso posizione deliberando la sua contrarietà anche all’assalto sul mare, ma anche Pachino, Avola, Portopalo di Capo Passero, Pozzallo, Modica, si uniscano sullo stesso obiettivo. È necessario sapere che, se si avviassero le prospezioni richieste, l’intera marineria da Avola a Pozzallo, ma in particolare quella di Portopalo, con la sua importante flotta peschereccia, rischierebbe di vedere compromessa l’attività di pesca, per lo sconvolgimento che subirebbero i banchi delle aree di pesca e il diradamento delle specie ittiche. A pochi e spregiudicati interessi di società, alle quali poco importa ciò che potrebbero subire le popolazioni costiere, corrisponderebbe la perdita di reddito e di lavoro di centinaia di famiglie che vivono delle risorse del mare. Non si può perdere tempo. Occorrono scelte rapide e il più ampio coinvolgimento delle popolazioni.