La Crimea è passata alla Russia fra inni di gioia e strepiti
di deplorazione. La divisione dell’Ucraina prospettata vent’anni fa da Samuel
Huntington, da oggi, con la ratifica del parlamento russo, è un dato di fatto. Con questo, la drammatica crisi di quel
paese giunge ad un suo primo punto d’approdo.
Il coro dei media
mainstream
occidentali accusa Putin di neozarismo, lo imputa di aggressione militare,
invoca
le sanzioni, mentre l’amministrazione
americana si permette, con faccia di bronzo veramente berlusconiana, di gridare
alla violazione di quel diritto internazionale che essa stessa ha
sistematicamente stracciato da vent’anni a questa parte, in Iraq, in Kossovo,
in Afghanistan, e, non meno gravemente, in Pakistan con gli attacchi dei droni.
Lasciamo stare il diritto internazionale, che meriterebbe ben altra
considerazione.
Nella rappresentazione dei media occidentali, la vicenda
si può riassumere così: il popolo ucraino ha democraticamente scelto,
assembrandosi con grande entusiasmo e determinazione in piazza Maidan, di
legarsi all’Europa anziché alla Russia e di abbattere un despota che non si
adeguava; il despota è fuggito esautorato dal parlamento; è stato instaurato un
governo approvato dal parlamento e dal popolo, dopodiché la Russia ha invaso la
Crimea, ha indetto un referendum illegale ed ha sottratto col sopruso la penisola
all’Ucraina.
C’è qualcosa da dire su ognuna di queste proposizioni.
Innanzitutto l’idea che la piazza rappresenti il popolo è
quanto meno avventata. Nel 1968 le piazze e le strade di Parigi erano invase di
barricate e di giovani entusiasti che chiedevano un cambiamento rivoluzionario
con grande entusiasmo e determinazione. La Francia sembrava trascinata: ma
quando in giugno si tenne il referendum di De Gaulle, il popolo votò contro la
piazza e la rivoluzione naufragò. In democrazia, la piazza propone, il voto
dispone. E non è che in Ucraina non si fosse mai votato sull’argomento in
questione. Al contrario, tutte le elezioni tenute dall’indipendenza in poi
erano state imperniate sulla scelta fra Russia e Occidente. E poiché il paese è
spaccato quasi esattamente a metà fra filorussi (prevalentemente ortodossi e
russofoni) e antirussi (prevalentemente cattolici uniati e parlanti ucraino),
in tutte le elezioni l’una o l’altra parte aveva vinto di strettissima misura. Sempre
con poco più della metà dei voti, nel 1994 il russofilo Kuchma aveva sconfitto
Kravchuk; nel 1999, lo stesso Kuchma batté Simonenko grazie stavolta al
sostegno antirusso delle province occidentali; nel 2004 il russofilo Janukovich
vinse di stretta misura contro il filoccidentale Yuschenko, ma in seguito alla “rivoluzione
arancione”, le elezioni furono ripetute e vinse Yuschenko; nel 2010, Janukovich
sconfisse Julia Timoschenko per quattro punti percentuali. Per i fan dell’alternanza,
un bell’esempio.
Possiamo aggiungere che un recente
sondaggio del novembre
2013
aveva trovato solo un 45% favorevole al famoso accordo di associazione con l’Unione
Europea, mentre il 14% ne voleva uno con la Russia e il 41% nessuno dei due. In
sintesi, l’Ucraina era un paese democratico spaccato a metà, non un popolo in
rivolta contro una dittatura.
In secondo luogo, esaminiamo i fatidici eventi di Kiev fra
il 20 e il 21 febbraio, giorno della fuga di Janukovich.
Da tre lunghi mesi la piazza è occupata dai manifestanti
europeisti che protestano contro il rifiuto di Janukovich di firmare l’accordo
di associazione con l’Ue. Il sostegno occidentale, e soprattutto americano, a
questa opposizione (che, ricordiamolo, in base a quel sondaggio e ai dati
elettorali, rappresentava solo una grossa minoranza) è stato aperto e
intensissimo. Il 13 dicembre 2013,
Victoria Nuland, moglie del neo-con Robert Kagan e sottosegretario agli Esteri del governo
Obama, appena rientrata a Washington dal suo terzo viaggio in Ucraina in cinque
settimane, dichiara che “il popolo ucraino non sosterrà più un presidente che
non lo porti all’Europa” e che gli Stati Uniti lo appoggiano fermamente in
questa scelta. Dichiara di aver personalmente intimato a Janukovich di firmare
l’associazione alla Ue e di accettare le riforme disegnate dal Fondo Monetario
Internazionale. Inneggia all’”energia e all’ottimismo” dei manifestanti “pacifici”
e rivela che gli Stati Uniti hanno investito oltre cinque miliardi di dollari
negli ultimi vent’anni per dare all’Ucraina “il futuro che si merita”. Il
discorso della Nuland è una dichiarazione di guerra a Janukovich e alla Russia
che lo sostiene. Già, perché le guerre più pericolose oggi non si combattono
coi bombardieri, ma incoraggiando, istigando, finanziando e sostenendo in tutti
i modi le opposizioni interne alle forze politiche che non si allineano a
Washington.
Arrivati a febbraio, dopo qualche grave eccesso repressivo e
qualche limitato spargimento di sangue, la piazza non è più così pacifica. Le
forze di destra, soprattutto del partito paranazista Svoboda, hanno
militarizzato le difese di Maidan e molti manifestanti sono armati di armi
nuovissime, fucili e pistole. Per capire come sono andate le cose, sarebbe
essenziale sapere da chi sono arrivate quelle armi, ma pochi se ne sono
preoccupati. E’ ovvio che ci sia la mano di qualche servizio segreto, e non
certo di parte russa.
Il 20 febbraio la tensione sale alle stelle quando dei
cecchini sparano sulla folla di Maidan dall’alto di edifici circostanti,
uccidendo dozzine di persone. Gli spari vengono naturalmente attribuiti ai
governativi, ma la cosa è tutt’altro che chiara. Giorni dopo, il ministro degli
Esteri estone Urmas Paet informava Catherine Ashton, responsabile Esteri Ue,
che stando alle sue fonti, i cecchini erano stati piazzati non dal governo, ma
dall’opposizione. La cosa non è certa, ma appare piuttosto probabile, se si
confrontano, con l’aiuto di
Giulietto Chiesa, gli eventi molto simili accaduti a Vilnius il 15 gennaio 1991, quando il leader
antirusso Audrius Butkevicius organizzò, per sua stessa successiva ammissione,
un massacro di manifestanti a fucilate, allo scopo di attribuirlo ai russi e
suscitare la generale indignazione del paese.
Di certo, il 20 febbraio, a Kiev l’indignazione è immensa e
gli eventi precipitano.
La mattina del giorno dopo, giunge l’annuncio che nella
notte è stato raggiunto un accordo fra Janukovich e le forze di opposizione con
la mediazione dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia
convenuti a Kiev. La notizia è smentita di lì a poco: per tutta la mattinata le
trattative continuano frenetiche, mentre in parlamento, fra boati di urla e
grida, si scatenano risse a pugni e calci.
Intorno alle tre di pomeriggio arriva l’annuncio dell’accordo
che prevede il ritiro delle forze governative da piazza Maidan, lo scioglimento
delle manifestazioni e la consegna delle armi illecite, una riforma
costituzionale, la formazione di un nuovo governo di unità nazionale ed
elezioni a breve termine. Gli Stati Uniti, a quanto pare, non erano stati
invitati al negoziato.
Quasi contenporaneamente, le forze di polizia svaniscono
come per incanto da piazza Maidan e da tutta la città per non ricomparire fino
alla fine del dramma. A piazza Maidan l’accordo è accolto con fischi e urla: il
sentimento dei manifestanti sembra nettamente contrario, si chiedono le immediate
dimissioni del presidente.
Intanto in parlamento è successo qualcosa di strano: almeno
una quarantina di deputati di Janukovich sono passati all’opposizione e in
quell’esagitata assemblea si è creata una nuova maggioranza, che in brevissimo
tempo vota il ritorno alla costituzione del 2004, esautora il ministro dell’interno
e delibera la scarcerazione di Julya Timoschenko.
A sera, il comandante militare della Nato Philip Breedlove,
che da due giorni era in contatto con i militari ucraini, annuncia di aver
avuto una “conversazione positiva” col capo di stato maggiore ucraino Yuri
Llyin. Poco dopo il ministro della Difesa Hagel loda i militari ucraini per
essersi astenuti da ogni intervento.
Intorno alle venti, a piazza Maidan, un anonimo comandante
dell’autodifesa sale sul palco e raccoglie un fragore di applausi lanciando un
ultimatum a Janukovic: “Se non se ne va entro domani alle dieci, attaccheremo
in armi.”
A mezzanotte ora di Kiev arriva, dal Dipartimento di Stato
americano, la notizia della fuga di Janukovich. Il giorno dopo sarà esautorato
dal parlamento. (Principale fonte di questa ricostruzione:
The Guardian).
Questo insieme di eventi è molto strano. Scrivemmo su questo
blog proprio quel giorno, prima di quest’ultimo evento: “L’accordo raggiunto
oggi fra l’opposizione ucraina e il governo di Janukovich lascia sperare
finalmente in una pacificazione di quel tormentato paese. Ma purtroppo le
speranze non sono molto solide. Perché il destino dell’Ucraina dipende assai
più dagli atti di Stati Uniti ed Europa che non dalle decisioni del governo o
dei manifestanti.”
Forse non avevamo tutti i torti. E’ troppo audace sospettare
che gli Stati Uniti non abbiano apprezzato tanto l’accordo mediato dagli
europei? Perché Janukovich è fuggito prima che il parlamento lo esautorasse? C’è
una sola spiegazione: aveva perso l’appoggio di tutte le sue forze armate e
temeva di fare la fine di Gheddafi. E come mai il voltafaccia delle forze
armate e del parlamento proprio quando l’accordo era stato raggiunto? Che gli
Stati Uniti abbiano avuto qualcosa a che fare col voltafaccia delle forze
armate, ce lo dice lo stesso generale Breedlove. E’ possibile che abbiano avuto
a che fare anche col voltafaccia del parlamento? E la strage del 20 febbraio?
Le domande sono tante, le risposte poche. Quello che è certo
è che a decidere il destino del paese in quei giorni fatidici non è stata la
volontà democratica del popolo ucraino, ma un insieme di manovre poco chiare su
cui forse non si saprà mai la verità. E che in queste manovre sia stata
pesantissima l’interferenza americana, tutto lo testimonia, a partire da
Victoria Nuland.
Che davanti a tutto questo la Russia abbia provato
risentimento, è il minimo che ci si possa aspettare. Come il minimo che ci si
potesse aspettare era la reazione in Crimea, ovviamente da tempo preparata. Pochi
ricordano che il parlamento di Crimea aveva già votato la secessione dall’Ucraina
nel 1992 e che poco dopo la Russia aveva revocato l’atto di cessione della
provincia a Kiev adottato da Kruschev quarant’anni prima. Poi, con la vittoria
del filorusso Kuchma, la cosa era stata lasciata cadere: forse perché senza la
Crimea i filorussi non avrebbero mai vinto nemmeno un’elezione.
Se oggi la Crimea è passata alla Russia, questo significa
che mai più i filorussi vinceranno un’elezione in Ucraina. La Russia ha
rinunciato a quella battaglia, che aveva combattuto per vent’anni, e questa è la
cosa che conta.
Se i mercati finanziari si sono curati appena del dramma
ucraino finora, se non si sono allarmati più di tanto per la Crimea, è perché
sanno bene che non c’è stata alcuna vittoria della Russia: c’è una vittoria
schiacciante degli Stati Uniti d’America.
Adesso, la vera incognita che resta da sciogliere è che cosa
ne sarà delle province orientali. Quello che non è chiaro in questo momento è
se la Russia si contenterà della Crimea o se farà di tutto per guadagnare anche
Kharkiv, Donetsk e le altre province filorusse. Tutto lascia pensare che gli
Stati Uniti abbiano già fatto tutto il necessario per assicurarle alla nuova Ucraina.
Ma c’è da temere, prima o poi, nuovi sommovimenti, perché troppo forte è il
legame di quelle regioni con Mosca. Arrivati a questo punto, quel che sarebbe
giusto ed equo, e che ci risparmierebbe ulteriori pericolose tensioni, sarebbe
rimettere democraticamente la scelta ai loro abitanti, con dei referendum
liberi e regolari provincia per provincia. E’ bene ricordare che vent’anni fa il
profetico Huntington dava per scontato che, in caso di spaccatura, quelle
province sarebbero andate alla Russia.
Comunque vada, la vicenda è triste: perché tutti i guai dell’Ucraina
sono nati soltanto dalla scelta americana di eleggere la Russia post-comunista
a proprio nemico, di mantenere in vita la Nato e tutto il loro apparato
militare a premere sui confini di quel paese, di concepire l’ingresso in Europa
dei paesi dell’Est come un atto in contrasto alla Russia, di coltivare quell’ostilità
come uno dei pilastri della loro visione geopolica. Senza quella scelta, la
politica di inclusione dell’Unione Europea si sarebbe potuta estendere alla
Russia, come era nel sogno di Ernesto Balducci. Questo non ha proprio nulla di
inverosimile: sarebbe anzi nel pieno interesse dell’Europa. Ma, purtroppo, è
proprio quello che gli Stati Uniti temono, perché, nella logica di
contrapposizione e di dominio che malauguratamente hanno scelto di adottare,
questo creerebbe un blocco di enorme potenza che potrebbe minacciare la loro
supremazia. Ma è proprio questa logica il problema. Basta leggere i documenti
ufficiali americani raccolti a suo tempo da Allegretti, Dinucci e Gallo nel
prezioso volume La strategia dell’impero
(Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1992) per vedere che essa risale ai
giorni immediatamente successivi alla presunta fine della guerra fredda. Senza
quella logica di contrapposizione e di dominio, senza quella scelta
malaugurata, né l’Europa né gli Stati Uniti avrebbero nulla da temere dalla
Russia, e l’Ucraina potrebbe vivere in pace e concordia con tutti i suoi vicini
d’oriente e d’occidente.