Costituzione, Pardi: “Tutti in piazza per fermare riforme illegittime e pericolossissime”

di Emilio Carnevali - Micromega - 19/09/2013
"Un parlamento eletto con una legge incostituzionale (il Porcellum) cerca di cambiare la Costituzione con un procedimento illegittimo (la deroga all'articolo 138). L'obiettivo è introdurre il presidenzialismo e stravolgere così la forma dello stato. Dobbiamo dare battaglia fino all'ultimo secondo".

Intervista a Pancho Pardi di Emilio Carnevali

Pancho Pardi è stato fra i protagonisti della stagione dei Girotondi. La scorsa legislatura, dopo essere stato eletto in Parlamento con l'Italia dei Valori, ha fatto parte della Commissione Affari costituzionali del Senato. Si è dunque occupato in prima persona di quei progetti di riforma della nostra Carta fondamentale che, naufragati durante ultimo scorcio del governo Monti, sono stati recentemente rilanciati con il disegno di legge di deroga all'articolo 138.

Pardi, sul finire della scorsa legislatura – quando lei sedeva ancora in Parlamento – il progetto fu bloccato. Eppure la maggioranza di governo era grosso modo la stessa...
Nel dicembre 2012 riuscii a convincere parecchi colleghi del Partito democratico ad abbandonare quel tentativo, sebbene fosse stato fin lì sostenuto – non senza qualche tentennamento, a dire la verità – dal loro stesso partito. Una prima bozza era già stata approvata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Ricordo quel passaggio in Commissione come una scena piuttosto desolante, perché ci ritrovammo solo in due (insieme a me c'era Mauro Marino del Pd) a votare contro. Tutti gli altri, esponenti del Pd compresi, votarono a favore. Quando il testo arrivò in aula mi impegnai con grande determinazione per cercare di portare dalla nostra parte altri senatori democratici. Alla fine diversi accettarono di non figurare come presenti nel momento in cui fu chiesta la verifica del numero legale. E il testo non passò.
Ecco perché adesso mi ha molto rattristato il fatto che il Partito democratico, il quale sembrava aver finalmente compreso l'entità della posta in gioco e la pericolosità del progetto, si sia nuovamente attestato sulle posizioni originarie. Tanto da riproporre un impianto sostanzialmente analogo a quello che fu bocciato nella scorsa legislatura, incentrato sul rafforzamento del potere esecutivo a scapito di quello legislativo e delle funzioni di controllo delle assemblee parlamentari.

Tuttavia, come ha fatto notare Michele Ainis sul Corriere della Sera qualche giorno fa, il nuovo ddl costituzionale non contiene alcun riferimento a quella Convenzione aperta a membri esterni al Parlamento che era alla base del progetto di riforma precedente e che era stata richiamata anche dal presidente Letta nelle sue “dichiarazioni programmatiche”. Ora abbiamo un comitato tutto interno alle istituzioni elettive: non le sembra un passo in avanti?
Hanno aggiustato il tiro perché la Convenzione come era stata originariamente pensata era un obbrobrio inaccettabile e non poteva funzionare. Ma il tentativo di compromesso presenta comunque caratteri molto ambigui. Questo comitato nascerà da una selezione dei componenti delle due Commissioni Affari costituzionali (fra l'altro non è nemmeno chiarissimo chi sarà ad operare tale selezione). Ciò significa che quando il nuovo comitato si riunirà le commissioni resteranno a girarsi i pollici. Ma perché prevedere un meccanismo così tortuoso? Non conveniva fare lavorare direttamente le stesse commissioni?

L'articolo 138 della Costituzione italiana stabilisce un metodo molto preciso e chiaro per operare riforme costituzionali. Perché non si è fatto ricorso a quello? Non mi soffermo poi sulle tanti ragioni di illegittimità di un procedimento che deroga all'articolo 138 perché sono già note le prese di posizione di moltissimi giuristi. Voglio solo attirare l'attenzione su un punto: l'articolo 138 non può essere derogato, perché è quello che serve a cambiare tutti gli altri. L'attuale maggioranza continua a ripetere che questa deroga è del tutto “eccezionale”, perché il 138 resta il dispositivo ordinario. Ma una volta che un'eccezione è stata introdotta diventa un precedente. E quando una cosa costituisce un precedente si configura come una prassi di norma che potrà essere ripetuta. Ecco perché le rassicurazioni fornite non mi tranquillizzano affatto.

Questo atteggiamento ostile su “tutta la linea” da parte delle opposizioni non corre il rischio di inabissare qualsiasi tentativo di riforma? In fondo c'è un consenso larghissimo – che va ben oltre il recinto della maggioranza – su alcune cose urgenti da fare: cito ad esempio l'abolizione delle province, la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto...
Trovo abbastanza pretestuosa questa obiezione. In realtà se il Parlamento voleva fare davvero quello che dice di voler fare (cioè i tre punti che ha evocato lei) poteva farlo benissimo. Perché allora complicare un lavoro che poteva essere molto più semplice? Perché non si è tentato di far passare solo quelle riforme sulle quali c'è un largo ed indiscutibile consenso?
Aggiungo un altro particolare che ci dovrebbe mettere ulteriormente in guardia dai tentativi in corso di far passare riforme controverse. L'attuale parlamento – come il precedente, quello nel quale ero presente anch'io – è stato eletto con il cosiddetto Porcellum. Ovvero con una norma che presenta profili di incostituzionalità (fra poco si pronuncerà la Consulta e vedremo che aveva ragione Stefano Rodotà quando, per primo, denunciò con forza l'incostituzionalità di una legge elettorale definita “una porcata” dal suo stesso promotore, il leghista Calderoli). Siamo dunque in presenza di un Parlamento eletto con una legge illegittima che si prende la responsabilità di cambiare la Carta sulla quale sono fondate tutte le istituzioni della nostra Repubblica. Come possono questi parlamentari riformare una Costituzione che è stata violata nel momento stesso in cui loro venivano eletti?
Sarebbe stato molto più sensato – se proprio si voleva intervenire – limitarsi a quelle tre “piccole” riforme condivise che lei ha citato (e che a dire la verità non sono affatto piccole). Invece no. Sono voluti andare oltre. L'obiettivo – è noto – è quello di “rafforzare il ruolo dell'esecutivo”, cioè introdurre una qualche forma di presidenzialismo.
E naturalmente si tenta di fare tutto ciò senza che nessuno abbia ancora messo mano ad una qualche normativa decente sul conflitto di interessi. Voglio proprio vedere se nel momento in cui introdurranno il presidenzialismo avranno il coraggio di aggiungere una bella frasetta sul fatto che non può ricoprire quella carica chi ha il possesso o il controllo dei mezzi di comunicazione.
La cosa veramente grave di tutto il processo in corso è proprio la volontà di cambiare la forma dello Stato. Se sopra il Parlamento viene posta una figura presidenziale come quella di cui si parla è evidente che si stravolge tutto. È evidente che non saremo più in una Repubblica parlamentare, ma in una Repubblica presidenziale. E questo è inaccettabile.

Ma perché è inaccettabile il presidenzialismo? La Francia o gli Stati Uniti vanno forse considerati dei paesi estranei alle istituzioni democratiche?
Il semipresidenzialismo francese è nato in una situazione eccezionale e per una sollecitazione, per così dire, extracostituzionale. C'era la crisi algerina, la rivolta dei generali, la necessità di arginare derive eversive. De Gaulle intervenne col suo indiscutibile prestigio e fondò la Quinta Repubblica ritagliando in qualche modo il nuovo ordinamento sulla sua figura. Ma era De Gaulle! Era il padre della Patria. Era un uomo che aveva combattuto contro i fascisti e i nazisti, e dal quale non c'era da temere nulla. Fra l'altro – se vogliamo soffermarci sulle definizioni – non si capisce perché si chiami “semi”-presidenzialismo, dato che il presidente ha un potere molto maggiore che negli Stati Uniti. È eletto direttamente dal popolo e si sceglie il proprio governo. E se quest'ultimo sbaglia lo può mandare a casa quando vuole. Mentre il parlamento non dico che sia ridotto a funzioni meramente “sceniche”, ma certo non ha un ruolo centrale.
Negli Usa il presidente ha molti meno poteri. È controllato da vicino dal Congresso, che può negargli i fondi e impedirgli di fare le riforme ad esso sgradite. L'unico ambito nel quale il presidente americano ha un potere effettivamente molto esteso è quello della politica estera, tanto che può dichiarare guerra senza nemmeno il mandato del Congresso. Ma sul fronte interno il presidente è supercontrollato. In più è da notare che il presidente e il parlamento non sono eletti contemporaneamente: il Senato non viene mai sciolto; i suoi membri restano in carica sei anni ma vengono eletti in tempi diversi. In questo modo si evita di formare un “blocco di potere” omogeneo, con un Parlamento troppo legato alla figura del presidente. Non di rado, infatti, troviamo delle maggioranze parlamentari di colore politico diverso da quello del presidente (anche oggi, ad esempio, al democratico Obama si contrappone una Camera dei deputati a maggioranza repubblicana).
Questo è l'equilibrio dei poteri, l'Abc della democrazia. Nulla a che fare con i progetti di riforma in corso, contro i quali ci dovrà essere battaglia fino all'ultimo secondo.
Mi permetta, infine, di aggiungere una chiosa molto “politica”. Violante e Schifani sostengono che riforme davvero condivise non possono non scontentare una piccola parte dei sostenitori dei due schieramenti. Non è vero. Queste riforme piacciono – giustamente – alla destra e scontentano solo la sinistra. Non siamo affatto di fronte ad una situazione simmetrica. Mi viene da pensare, maliziosamente, che l'attivismo di Violante sia da ricondurre al fatto che intraveda la possibilità di tornare in corsa per la presidenza della Repubblica.

Lei ora non siede più in Parlamento. La sua scelta di non ricandidarsi va letta come un segno di sfiducia verso la possibilità di cambiare le cose, o di produrre la mobilitazione che lei ha appena invocato, da “dentro il Palazzo”?
Assolutamente no. Non penso affatto che non ci sia la possibilità di cambiare le cose da dentro il Parlamento. Quest'ultimo è una cosa seria e anche in virtù della mia esperienza posso garantire che i suoi funzionari, gli addetti alle strutture interne, insomma le persone che ci lavorano sono dei professionisti eccellenti.
Io ho scelto di non ricandidarmi semplicemente perché vedevo quel che era già visibile a tutti prima delle elezioni, ovvero che il partito nel quale ero stato eletto era avviato ad una fine ingloriosa a causa dei suoi tanti errori. Dunque non volevo essere ricandidato da quel partito. Ho ricevuto anche diverse offerte di candidatura dal Partito democratico, ma per coerenza non ho reputato giusto accettarle.
Tuttavia questa è solo la mia vicenda personale, non c'entra nulla con il Parlamento in sé. Dirò di più: dopo la mia esperienza “nel Palazzo” prendo ancor più sul serio il Parlamento di quanto non facessi prima. Ne ho ancor più rispetto.

Si sente di fare un appello per la partecipazione al 12 ottobre in difesa della Costituzione?

Certamente sì. Faccio un appello convinto e appassionato. Non dobbiamo assolutamente sottovalutare quello che sta succedendo, magari facendo affidamento sul fatto che ci troviamo di fronte ad un governo molto “precario”, sempre sul punto di vedersi togliere la fiducia dalle forze che lo sostengono. È in atto un tentavo di manomissione della nostra Costituzione pericolosissimo. Per questo mi auguro che saremo tantissimi a scendere in piazza il prossimo 12 ottobre.

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