Intervista a Pancho Pardi di Emilio Carnevali
Pancho
Pardi è stato fra i protagonisti della stagione dei Girotondi. La
scorsa legislatura, dopo essere stato eletto in Parlamento con l'Italia
dei Valori, ha fatto parte della Commissione Affari costituzionali del
Senato. Si è dunque occupato in prima persona di quei progetti di
riforma della nostra Carta fondamentale che, naufragati durante ultimo
scorcio del governo Monti, sono stati recentemente rilanciati con il
disegno di legge di deroga all'articolo 138.
Pardi, sul
finire della scorsa legislatura – quando lei sedeva ancora in Parlamento
– il progetto fu bloccato. Eppure la maggioranza di governo era grosso
modo la stessa...
Nel dicembre 2012 riuscii a convincere
parecchi colleghi del Partito democratico ad abbandonare quel tentativo,
sebbene fosse stato fin lì sostenuto – non senza qualche tentennamento,
a dire la verità – dal loro stesso partito. Una prima bozza era già
stata approvata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato.
Ricordo quel passaggio in Commissione come una scena piuttosto
desolante, perché ci ritrovammo solo in due (insieme a me c'era Mauro
Marino del Pd) a votare contro. Tutti gli altri, esponenti del Pd
compresi, votarono a favore. Quando il testo arrivò in aula mi impegnai
con grande determinazione per cercare di portare dalla nostra parte
altri senatori democratici. Alla fine diversi accettarono di non
figurare come presenti nel momento in cui fu chiesta la verifica del
numero legale. E il testo non passò.
Ecco perché adesso mi ha molto
rattristato il fatto che il Partito democratico, il quale sembrava aver
finalmente compreso l'entità della posta in gioco e la pericolosità del
progetto, si sia nuovamente attestato sulle posizioni originarie. Tanto
da riproporre un impianto sostanzialmente analogo a quello che fu
bocciato nella scorsa legislatura, incentrato sul rafforzamento del
potere esecutivo a scapito di quello legislativo e delle funzioni di
controllo delle assemblee parlamentari.
Tuttavia, come ha fatto notare Michele Ainis sul Corriere della Sera
qualche giorno fa, il nuovo ddl costituzionale non contiene alcun
riferimento a quella Convenzione aperta a membri esterni al Parlamento
che era alla base del progetto di riforma precedente e che era stata
richiamata anche dal presidente Letta nelle sue “dichiarazioni
programmatiche”. Ora abbiamo un comitato tutto interno alle istituzioni
elettive: non le sembra un passo in avanti?
Hanno
aggiustato il tiro perché la Convenzione come era stata originariamente
pensata era un obbrobrio inaccettabile e non poteva funzionare. Ma il
tentativo di compromesso presenta comunque caratteri molto ambigui.
Questo comitato nascerà da una selezione dei componenti delle due
Commissioni Affari costituzionali (fra l'altro non è nemmeno chiarissimo
chi sarà ad operare tale selezione). Ciò significa che quando il nuovo
comitato si riunirà le commissioni resteranno a girarsi i pollici. Ma
perché prevedere un meccanismo così tortuoso? Non conveniva fare
lavorare direttamente le stesse commissioni?
L'articolo 138
della Costituzione italiana stabilisce un metodo molto preciso e chiaro
per operare riforme costituzionali. Perché non si è fatto ricorso a
quello? Non mi soffermo poi sulle tanti ragioni di illegittimità di un
procedimento che deroga all'articolo 138 perché sono già note le prese
di posizione di moltissimi giuristi. Voglio solo attirare l'attenzione
su un punto: l'articolo 138 non può essere derogato, perché è quello che
serve a cambiare tutti gli altri. L'attuale maggioranza continua a
ripetere che questa deroga è del tutto “eccezionale”, perché il 138
resta il dispositivo ordinario. Ma una volta che un'eccezione è stata
introdotta diventa un precedente. E quando una cosa costituisce un
precedente si configura come una prassi di norma che potrà essere
ripetuta. Ecco perché le rassicurazioni fornite non mi tranquillizzano
affatto.
Questo atteggiamento ostile su “tutta la linea”
da parte delle opposizioni non corre il rischio di inabissare qualsiasi
tentativo di riforma? In fondo c'è un consenso larghissimo – che va ben
oltre il recinto della maggioranza – su alcune cose urgenti da fare:
cito ad esempio l'abolizione delle province, la riduzione del numero dei
parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto...
Trovo
abbastanza pretestuosa questa obiezione. In realtà se il Parlamento
voleva fare davvero quello che dice di voler fare (cioè i tre punti che
ha evocato lei) poteva farlo benissimo. Perché allora complicare un
lavoro che poteva essere molto più semplice? Perché non si è tentato di
far passare solo quelle riforme sulle quali c'è un largo ed
indiscutibile consenso?
Aggiungo un altro particolare che ci
dovrebbe mettere ulteriormente in guardia dai tentativi in corso di far
passare riforme controverse. L'attuale parlamento – come il precedente,
quello nel quale ero presente anch'io – è stato eletto con il cosiddetto
Porcellum. Ovvero con una norma che presenta profili di
incostituzionalità (fra poco si pronuncerà la Consulta e vedremo che
aveva ragione Stefano Rodotà quando, per primo, denunciò con forza
l'incostituzionalità di una legge elettorale definita “una porcata” dal
suo stesso promotore, il leghista Calderoli). Siamo dunque in presenza
di un Parlamento eletto con una legge illegittima che si prende la
responsabilità di cambiare la Carta sulla quale sono fondate tutte le
istituzioni della nostra Repubblica. Come possono questi parlamentari
riformare una Costituzione che è stata violata nel momento stesso in cui
loro venivano eletti?
Sarebbe stato molto più sensato – se proprio
si voleva intervenire – limitarsi a quelle tre “piccole” riforme
condivise che lei ha citato (e che a dire la verità non sono affatto
piccole). Invece no. Sono voluti andare oltre. L'obiettivo – è noto – è
quello di “rafforzare il ruolo dell'esecutivo”, cioè introdurre una
qualche forma di presidenzialismo.
E naturalmente si tenta di fare
tutto ciò senza che nessuno abbia ancora messo mano ad una qualche
normativa decente sul conflitto di interessi. Voglio proprio vedere se
nel momento in cui introdurranno il presidenzialismo avranno il coraggio
di aggiungere una bella frasetta sul fatto che non può ricoprire quella
carica chi ha il possesso o il controllo dei mezzi di comunicazione.
La
cosa veramente grave di tutto il processo in corso è proprio la volontà
di cambiare la forma dello Stato. Se sopra il Parlamento viene posta
una figura presidenziale come quella di cui si parla è evidente che si
stravolge tutto. È evidente che non saremo più in una Repubblica
parlamentare, ma in una Repubblica presidenziale. E questo è
inaccettabile.
Ma perché è inaccettabile il
presidenzialismo? La Francia o gli Stati Uniti vanno forse considerati
dei paesi estranei alle istituzioni democratiche?
Il
semipresidenzialismo francese è nato in una situazione eccezionale e per
una sollecitazione, per così dire, extracostituzionale. C'era la crisi
algerina, la rivolta dei generali, la necessità di arginare derive
eversive. De Gaulle intervenne col suo indiscutibile prestigio e fondò
la Quinta Repubblica ritagliando in qualche modo il nuovo ordinamento
sulla sua figura. Ma era De Gaulle! Era il padre della Patria. Era un
uomo che aveva combattuto contro i fascisti e i nazisti, e dal quale non
c'era da temere nulla. Fra l'altro – se vogliamo soffermarci sulle
definizioni – non si capisce perché si chiami “semi”-presidenzialismo,
dato che il presidente ha un potere molto maggiore che negli Stati
Uniti. È eletto direttamente dal popolo e si sceglie il proprio governo.
E se quest'ultimo sbaglia lo può mandare a casa quando vuole. Mentre il
parlamento non dico che sia ridotto a funzioni meramente “sceniche”, ma
certo non ha un ruolo centrale.
Negli Usa il presidente ha molti
meno poteri. È controllato da vicino dal Congresso, che può negargli i
fondi e impedirgli di fare le riforme ad esso sgradite. L'unico ambito
nel quale il presidente americano ha un potere effettivamente molto
esteso è quello della politica estera, tanto che può dichiarare guerra
senza nemmeno il mandato del Congresso. Ma sul fronte interno il
presidente è supercontrollato. In più è da notare che il presidente e il
parlamento non sono eletti contemporaneamente: il Senato non viene mai
sciolto; i suoi membri restano in carica sei anni ma vengono eletti in
tempi diversi. In questo modo si evita di formare un “blocco di potere”
omogeneo, con un Parlamento troppo legato alla figura del presidente.
Non di rado, infatti, troviamo delle maggioranze parlamentari di colore
politico diverso da quello del presidente (anche oggi, ad esempio, al
democratico Obama si contrappone una Camera dei deputati a maggioranza
repubblicana).
Questo è l'equilibrio dei poteri, l'Abc della
democrazia. Nulla a che fare con i progetti di riforma in corso, contro i
quali ci dovrà essere battaglia fino all'ultimo secondo.
Mi
permetta, infine, di aggiungere una chiosa molto “politica”. Violante e
Schifani sostengono che riforme davvero condivise non possono non
scontentare una piccola parte dei sostenitori dei due schieramenti. Non è
vero. Queste riforme piacciono – giustamente – alla destra e
scontentano solo la sinistra. Non siamo affatto di fronte ad una
situazione simmetrica. Mi viene da pensare, maliziosamente, che
l'attivismo di Violante sia da ricondurre al fatto che intraveda la
possibilità di tornare in corsa per la presidenza della Repubblica.
Lei
ora non siede più in Parlamento. La sua scelta di non ricandidarsi va
letta come un segno di sfiducia verso la possibilità di cambiare le
cose, o di produrre la mobilitazione che lei ha appena invocato, da
“dentro il Palazzo”?
Assolutamente no. Non penso affatto
che non ci sia la possibilità di cambiare le cose da dentro il
Parlamento. Quest'ultimo è una cosa seria e anche in virtù della mia
esperienza posso garantire che i suoi funzionari, gli addetti alle
strutture interne, insomma le persone che ci lavorano sono dei
professionisti eccellenti.
Io ho scelto di non ricandidarmi
semplicemente perché vedevo quel che era già visibile a tutti prima
delle elezioni, ovvero che il partito nel quale ero stato eletto era
avviato ad una fine ingloriosa a causa dei suoi tanti errori. Dunque non
volevo essere ricandidato da quel partito. Ho ricevuto anche
diverse offerte di candidatura dal Partito democratico, ma per coerenza
non ho reputato giusto accettarle.
Tuttavia questa è solo la mia
vicenda personale, non c'entra nulla con il Parlamento in sé. Dirò di
più: dopo la mia esperienza “nel Palazzo” prendo ancor più sul serio il
Parlamento di quanto non facessi prima. Ne ho ancor più rispetto.
Si sente di fare un appello per la partecipazione al 12 ottobre in difesa della Costituzione?
Certamente
sì. Faccio un appello convinto e appassionato. Non dobbiamo
assolutamente sottovalutare quello che sta succedendo, magari facendo
affidamento sul fatto che ci troviamo di fronte ad un governo molto
“precario”, sempre sul punto di vedersi togliere la fiducia dalle forze
che lo sostengono. È in atto un tentavo di manomissione della nostra
Costituzione pericolosissimo. Per questo mi auguro che saremo tantissimi
a scendere in piazza il prossimo 12 ottobre.
"Un parlamento eletto con una legge incostituzionale (il Porcellum) cerca di cambiare la Costituzione con un procedimento illegittimo (la deroga all'articolo 138). L'obiettivo è introdurre il presidenzialismo e stravolgere così la forma dello stato. Dobbiamo dare battaglia fino all'ultimo secondo".