Difendiamo il sistema

di Francesco Baicchi - 29/05/2018

Premesso che non sono un costituzionalista, ma solo un cittadino affezionato alla nostra Costituzione nata dall’antifascismo come reazione ai disastri della dittatura, mi sembra che la situazione in cui ci siamo cacciati sia utile solo a chi questa Costituzione cerca da tempo di demolirla. E si inserisca in un quadro che va ben al di là del tifo pro o contro Mattarella o Savona.

Il progressivo passaggio dal sistema rappresentativo, nel quale la sovranità popolare viene esercitata determinando in modo proporzionale la composizione delle Camere, sede del potere legislativo, a modelli che concentrano negli esecutivi un potere crescente è una costante degli ultimi decenni. Per semplicità: in questa direzione procedono da tempo il progressivo abuso della decretazione d’urgenza, la frequente violazione dell’art. 72 (relativo all’iter legislativo), fino all’esplicito tentativo di far passare una svolta esplicitamente presidenzialista con le ‘riforme’ di Berlusconi prima e Renzi dopo.

Non meno rilevanti sono state le conseguenze della crisi dei partiti, pensati come ‘corpi intermedi’ e strumento di partecipazione, e trasformati invece in comitati elettorali di leader egocentrici e autoritari.

Possiamo leggere in questa luce anche la proposta di cancellare il divieto di ‘vincolo di mandato’ (art. 67), che farebbe dei singoli parlamentari meri esecutori della volontà del leader (che disporrebbe anche del potere di ricandidarli o meno).

A mio avviso però forse ancora più preoccupante è stato il ripetersi di episodi che hanno di fatto delegittimato istituti che dovrebbero costituire la massima garanzia della legalità costituzionale. Il mancato rispetto della volontà popolare espressa nei referendum, ad esempio (vedi quello sulla ripubblicizzazione dell’acqua). Ma anche la mancata attuazione della sentenza della Corte Costituzionale (la n. 1/2014) che dichiarava l’illegittimità di un Parlamento eletto con una legge dichiarata, appunto, ampiamente incostituzionale.

In quest’ultimo caso non si è indebolita solo la credibilità della Consulta, ma anche quella del Presidente della Repubblica, che ha tollerato che la legislatura proseguisse indisturbata, con le conseguenze che conosciamo, intaccando così il suo ruolo di arbitro imparziale.

Ora la scelta del Presidente della Repubblica di impedire il passaggio alle Camere di un governo a causa del suo dissenso sulla figura di un ministro (per quanto importante) mette nuovamente in causa la sua ‘terzietà’. Se poi aggiungiamo che quel governo avrebbe avuto quasi sicuramente la fiducia, nel rispetto dell’esito del voto del 4 marzo, mentre è assai improbabile che questo avvenga per il nuovo PdC incaricato e definito ‘neutro’, diviene inevitabile interrogarsi sugli sviluppi possibili di una vicenda inedita, che avrebbe potuto e dovuto avere un esito diverso se non si fosse scelto lo scontro frontale.

Come si procederà se, come sembra, il governo Cottarelli non avrà la fiducia? L’art. 88 assegna al PdR il potere di sciogliere le Camere, ma ‘sentiti i loro Presidenti’, che non potranno non confermare che il questo Parlamento una maggioranza possibile esiste e dunque non è indispensabile il ritorno al voto, che, fra l’altro, aumenterebbe quella instabilità che favorisce la speculazione finanziaria tanto cara a certi ambienti internazionali.    

A questo punto vorrei chiarire che a me il programma del governo DiMaio-Salvini in larga parte non piaceva e che anche sull’elenco dei possibili ministri avevo forti dubbi, ma credo che il rispetto del dettato costituzionale e l’imparzialità delle figure di garanzia debbano essere pretesi e difesi a tutti i costi. Il PdR, come già affermato da tanti costituzionalisti, può esercitare il suo compito di tutela della legalità sui singoli atti del governo e del Parlamento, ma non dovrebbe intervenire con atti che suscitano il sospetto di voler favorire una forza politica (il PD) restituendole un ruolo negato dagli elettori.

Perché anche questo è un modo di minare la fiducia dei cittadini nelle Istituzioni, proseguendo nella loro demolizione.

Queste vicende giustificano il ricorso alla ‘messa in stato di accusa’?  Al di là del merito, che lascio a chi ne sa più di me, credo che sia piuttosto il momento della riflessione e della ricerca di soluzioni che non facciano ancora una volta pagare ai cittadini più deboli i costi degli errori di gruppi dirigenti politici inadeguati.

Per i toni guerreschi della prossima campagna elettorale forse c’è ancora tempo.
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