Economia - Cosa c’è di nuovo?

di Francesco Baicchi - 28/11/2014

Inevitabilmente le nostre idee sono la conseguenza delle nostre esperienze di vita. Questo, se non giustifica la politica di Renzi in materia economica, almeno la spiega.

La somma dei provvedimenti compresi nei cosiddetti Job’s Act e Sblocca Italia, al di là dei proclami elettorali, esprime l’idea unica che la competitività delle imprese, pubbliche e private, sia fondata esclusivamente sulla compressione dei costi, soprattutto di quelli del lavoro.

Strategia naturalmente perdente, in un mercato globalizzato su cui operano paesi con un tenore di vita e livelli retributivi enormemente più bassi di quelli europei; mentre nazioni con retribuzioni più alte delle nostre stanno affrontando la crisi in modo meno drammatico.

Molti economisti, e soprattutto esperti indipendenti con esperienza di imprese, affermano da tempo che i fattori di competitività sono altri.

D’altronde intervenire riducendo le retribuzioni e i diritti dei dipendenti non può che avere effetti limitati, in particolare sul settore manifatturiero, visto che l’incidenza della componente ‘lavoro’ sul costo finale dei prodotti difficilmente supera il 10%. Il gap di competitività delle nostre imprese a parità di prodotto supera certamente qualche punto percentuale.

Sicuramente più importanti sono altri fattori negativi di ‘sistema’: il caos fiscale, la bassa qualità dei servizi, la concorrenza sleale del lavoro nero, della evasione fiscale e dei prodotti ‘clonati’, la corruzione che rende sempre incerto l’esito degli appalti (o costituisce un costo improprio), la lentezza della Giustizia e la legislazione fallimentare che rendono quasi impossibile il recupero dei crediti, l’alto costo dei servizi bancari, spesso al limite dell’usura, e i condizionamenti della malavita organizzata. La corruzione dilagante, che falsa il mercato specialmente per quanto riguarda la spesa pubblica, finisce col disincentivare gli investimenti e la razionalizzazione dei processi, indebolendo le nostre imprese sui mercati internazionali.

Ognuno di questi fattori, oltre a penalizzare le nostre imprese, incide certamente sulla scarsa propensione a investire in Italia e rende più appetibile l’acquisto di aziende per acquisire il marchio e trasferire attività produttiva e sede legale all’estero.

Sarebbe piuttosto indispensabile intervenire sul piano della innovazione, non solo di prodotto ma anche dei processi produttivi, che è frutto degli investimenti in ricerca e sviluppo, nei quali siamo agli ultimi posti fra i Paesi avanzati. La Cina, che in molti identificano come produttrice di ‘copie’ di prodotti occidentali, in realtà nel 2011 ha registrato un quarto di tutti i brevetti mondiali precedendo gli USA. L’Italia si è piazzata dopo Giappone, Corea del Sud, India, ma anche dopo Singapore, Francia, Svizzera, Gran Bretagna, Paesi Bassi ecc …. E non c’è da stupirsi vista la minima entità dei nostri finanziamenti destinati alla ricerca.

Ma in una fase di scarsità della domanda rispetto ai volumi di offerta dei beni di consumo la competitività è data anche da quella che viene definita la componente ‘immateriale’ del prodotto o del servizio: immagine, promozione, attenzione alla ‘soddisfazione del cliente’, efficacia della rete distributiva, credibilità del marchio, ecc ….

Se sul piano del design il nostro Paese continua ad essere tradizionalmente un punto di riferimento mondiale (anche se sempre più insidiato da nuovi protagonisti emergenti), su tutti gli altri fattori il ritardo delle nostre imprese è notevole.

Le cause stanno essenzialmente nelle caratteristiche strutturali di molte nostre imprese: dimensioni troppo piccole e sottocapitalizzate (che le rende totalmente dipendenti dal credito), vita media troppo breve (raramente superano la seconda generazione, e questo giustifica la scarsa propensione a investire), prevalenza (come numero di imprese) delle attività di subfornitura che non operano direttamente sul mercato finale e non sviluppano politiche di fidelizzazione della clientela; infine, certo non meno importante, la professionalità dei manager, che sono quasi sempre gli stessi imprenditori, spesso vengono dal settore della produzione, e sono meno competenti sul piano del marketing e finanziario, che invece oggi sono essenziali.

Non stupisce che questo tipo di imprenditore rivendichi libertà di licenziare (definita ‘elasticità’), compressione dei salari e riduzione del carico fiscale (senza però ricordare le dimensioni della evasione fiscale e contributiva), anche se agli anni del secondo dopoguerra, quando una crescita tumultuosa fu resa possibile proprio dai bassi costi di produzione, non sono certo ripetibili.

Purtroppo la politica economica dell’attuale governo sembra ricalcare totalmente questa visione miope, puntando ancora una volta a far pagare la crisi ai lavoratori dipendenti e distribuendo incentivi a pioggia, invece di selezionare i comportamenti ‘virtuosi’ che potrebbero promuovere un

vero salto di qualità e un rinnovamento anche culturale della imprenditorialità.

Non stupisce scoprire che i provvedimenti annunciati e imposti a colpi di maggioranza, rifiutando il confronto con le proposte del sindacato e delle forze di opposizione ricalchino esattamente le richieste di una classe imprenditoriale pesantemente corresponsabile della attuale situazione.

Nessun intervento efficace appare invece all’orizzonte per combattere l’evasione fiscale, la corruzione, i grandi sprechi della spesa pubblica (autostrade inutili, TAV in Val di Susa, MOSE, spese per armamenti, ecc… ); mentre per sostenere il mercato interno si preferiscono le ‘donazioni’ di 80 euro (inefficaci, ma dagli immediati effetti elettorali) invece degli interventi di difesa del territorio, di valorizzazione dei beni culturali, di ampliamento dei servizi sociali.

Non c’è niente di nuovo o di giovane nel Job’s Act e neanche nello ‘sblocca Italia’, ma forse da Renzi, per le sue origini e la sua storia personale, non potevamo aspettarci altro.
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