“.........la molle natura dell’acqua d’un tratto s’avventa
in straripante fiume – se l’accresce un torrente ingrossato
da copiosi rovesci di pioggia – che discende da alte montagne
trasportando frammenti boschivi o alberi interi;
né i solidi ponti possono resistere all’improvvisa violenza
dell’acqua che sopraggiunge: a tal punto il fiume torbido per le grandi piogge
si scaglia con irresistibile forza contro i piloni,
semina con alto fragore una strage, travolge enormi macigni
sott’acqua e abbatte ogni ostacolo dovunque si oppone ai suoi flutti.”
Secondo il linguaggio giornalistico ecco la descrizione di una “bomba d’acqua”, fenomeno recente nella nostra fascia climatica, testimone di una tendenza delle precipitazioni piovose ad assumere carattere tropicale. Ma la scena descritta sopra non è affatto recente. Si tratta dei versi 281-289 del primo libro del De Rerum Natura di Lucrezio, qui nella traduzione di Luca Canali. Il poeta giunge a illustrare la forza dell’acqua perché si è posto il compito far percepire al lettore la potenza dell’invisibile vento, trattato nei versi precedenti (271-280) e seguenti (290-297), di cui si può solo osservare le conseguenze: gli alberi si piegano, il mare si gonfia, ma il vento non si vede. Dunque il paragone con la forza visibile dell’acqua.
Ma Lucrezio non ha visto e non ha descritto una bomba d’acqua. Ha raffigurato un fenomeno naturale, comune e inevitabile tutte le volte che una forte e concentrata precipitazione investe un contesto territoriale. Fenomeno forse eccezionale dal punto di vista della frequenza, ma del tutto normale dal punto di vista delle cause e degli effetti. Non c’è bisogno di una mutazione tropicale per osservarlo. Piove, l’acqua scende dai versanti e si raccoglie negli impluvi. Se piove molto e in poco tempo, i torrenti si ingrossano. Più acqua i torrenti versano in un fiume e più aumenta il livello di piena. La corrente lambisce l’orlo dell’argine e basta poco -un leggero aumento della portata, un minimo cedimento dell’argine- per produrre l’esondazione.
Oggi si tende a sopravvalutare l’eccezionalità della frequenza e a trascurare la normalità delle cause. E’ scelta poco adatta a capire i fenomeni e poco utile a fronteggiarli nella dinamica e nelle conseguenze. La frequenza è variabile, e spesso più serrata di quanto si pensi, tanto che a considerare la ripetizione dei disastri degli ultimi decenni, negli stessi luoghi e in cicli sempre più stretti, viene da chiedersi se l’eccezionale sia una categoria ancora buona per l’uso. Un solo esempio tra tanti: Carrara, settembre 2003, novembre 2012, due volte a distanza di quindici giorni, e novembre 2014, pochi giorni fa.
In realtà le cause sono sempre in agguato, gli effetti quasi del tutto prevedibili. Ma il punto critico principale è che i fenomeni si manifestano e si ripetono in quadri naturali che sono al tempo stesso contesti più o meno intensamente urbanizzati. Danni enormi, ripetuti e pervasivi mostrano con ogni evidenza che la gravità dell’evento naturale -intensità e concentrazione spaziale della precipitazione- è moltiplicata oltre misura dalla fragilità dell’ambiente urbanizzato. E la fragilità è resa insostenibile non dai caratteri naturali dei luoghi ma da espansioni urbane pensate male, costruite male, nei luoghi sbagliati. Certo, le città storiche hanno subito alluvioni anche prima dell’estesa urbanizzazione nella seconda metà del novecento, ma i danni subiti allora non sono paragonabili a quelli prodotti nella vastità delle espansioni urbane recenti. Insomma, il problema maggiore non è la pioggia ma come sono organizzati i territori su cui la pioggia cade. Perciò non convince l’espressione “bomba d’acqua”: carica di responsabilità la precipitazione piovosa e assolve il territorio che la riceve.
Tra i candidati a subire i danni delle precipitazioni più intense si possono distinguere per semplicità due grandi tipi principali di ambienti, facilissimi da individuare in base all’esperienza storica o alla ricognizione diretta: valli strette e pianure alluvionali.
Una valle stretta che abbia alle spalle un bacino idrografico ramificato, non necessariamente molto esteso, magari reso più temibile da rocce poco permeabili, si presenta come una bocca d’imbuto troppo strozzata per far passare con facilità l’onda di piena. Una città costruita proprio nella strozzatura è vittima predestinata del disastro alluvionale. Non ci si può stupire che accada; al contrario bisogna meravigliarsi quando non accade. Se poi, come a Genova, la strozzatura della valle è addirittura ostruita da una piastra urbanizzata che copre il corso del fiume e lo costringe in una condotta ipogea forzata, l’acqua che non può passare di sotto passa di sopra: dentro e sopra la città. Chi ha collocato proprio in quella piastra un centro direzionale regionale avrà pensato che questo avesse il potere magico di scongiurare l’invasione dell’onda di piena? Siamo costretti ad ammettere: ecco l’urbanizzazione autolesionista.
Nelle carte geologiche i terreni delle pianure sono detti “alluvioni” per il motivo elementare che sono il prodotto delle alluvioni, antiche e recenti: “il fiume torbido per le grandi piogge” può uscire dal suo letto e depositare nelle aree prossime al suo corso masse ingenti di detrito strappato dall’erosione ai rilievi dell’intero bacino idrografico. La terra (in realtà ciottoli, sabbie e argille) portata dalla piena innalza il letto del fiume e rende più facile l’esondazione; la terra distribuita da questa innalza la pianura accanto al fiume. Con la ripetizione ciclica del fenomeno, in una pianura matura il fiume si trova a fluire sulla sua porzione più alta. Difatti gli argini artificiali delle città storiche costruite sulle rive sono spesso le superfici più alte della città. Diffusi ovunque i casi di strade parallele a fianco degli argini (ad esempio Via della Lungara a Roma e Borgo Ognissanti a Firenze) che giacciono svariati metri più in basso: tutti metri destinati a riempirsi di acqua e terra alla prima piena che scavalchi l’argine.
L’esperienza storica delle città fluviali ha insegnato a irrobustire gli argini; a prepararne rotture volontarie in aperta campagna a monte delle città per far sfogare in anticipo la piena, luoghi segnalati oggi da toponimi come La Rotta; a organizzare, come a Pisa, paratie di legno catramato da innestare sulle spallette dei Lungarni, rinforzate da sacchi di sabbia, per fronteggiare l’emergenza di una piena straordinaria (l’usanza è detta ironicamente “lutto alle cee”, giovani anguille che risalgono la corrente delle piene novembrine). Insomma, le città delle pianure alluvionali poggiano sulle alluvioni e possono nel futuro essere allagate da nuove alluvioni.
La difficoltà è accresciuta se la valle stretta o la pianura alluvionale sono prossime al mare e se la piena coincide con un regime di venti che vi ostacola il deflusso. Allora l’onda di piena che non può sfogarsi si spaglia nei terreni laterali. Fenomeno analogo avviene quando affluenti gonfi di pioggia non riescono a versare nel fiume principale ancora più gonfio; ad esempio noti e micidiali sono i ritorni a ritroso della piena del Tanaro quando non riesce a rovesciarsi in Po’.
L’Italia ha una tradizione luminosa di sistemazioni idrauliche. A partire dalla riduzione del disordine idraulico nella pianura padana durante il Medioevo. Se date un’occhiata non distratta alla carta geografica vedrete che a partire dal Reno tutti i torrenti appenninici in destra del Po’ non si gettano nel fiume principale ma sono costretti a deviare bruscamente verso oriente e percorrere le piane comprese tra il Po’ e il piede appenninico per gettarsi poi con proprie foci in Adriatico. E a nord il fatto si ripete con l’Adige. Il motivo è elementare: il Po’ è troppo alto, e perciò in origine i fiumi secondari impaludavano larghe fasce della pianura. La scena che vediamo è il prodotto di lunghe bonifiche iniziate da abbazie benedettine e comunità locali, e protratte nei secoli. L’ordine idraulico della pianura padana, in particolare nella sua vasta porzione orientale, è un capolavoro assoluto dell’ingegno umano: non solo ha risolto con la massima eleganza le difficoltà di deflusso di una pianura solo in apparenza piatta ma in realtà composta da un’infinità di piani dall’inclinazione inavvertibile e diversa da luogo a luogo, ma con raffinate opere di scolo riesce anche a proteggere città di fatto circondate da fiumi pensili; l’esempio forse più significativo è Ravenna stretta tra il Lamone e i Fiumi Riuniti (Montone e Ronco).
Settecento e ottocento sono stati una vera fucina di bonifiche e di sistemazioni idrauliche. Laghi interni malarici prosciugati e messi a coltura (Valdichiana); bacini troppo bassi (Lago di Bientina) fatti defluire in fossi scolmatori mediante sifone al di sotto del fiume troppo alto -in questo caso l’Arno- in cui non riuscivano a versare; pianure più basse del mare innalzate col contributo forzato di piene fluviali deviate in casse di colmata (pianura di Grosseto). Tutto realizzato solo con forza motrice umana o animale o, alla fine, con l’aiuto di motori a vapore. Si può obbiettare che non tutte le opere hanno avuto nel corso del tempo un esclusivo ruolo positivo; ad esempio nel Valdarno superiore, a monte di Firenze, la cancellazione di tutti i meandri tra Levane e Incisa, per eliminare impaludamenti e razionalizzare le attività agricole, ha raddrizzato il corso fluviale come un tiro di fucile -il fiume corre diritto come l’autostrada che gli è stata costruita accanto- e ha aumentato l’impeto delle piene dando così il suo contributo all’alluvione del 1966.
Ma nel complesso sette e ottocento sono a buon titolo i secoli dell’ordine idraulico. Al contrario la seconda metà del novecento e questo scampolo di duemila mostrano un’attitudine sfrontata per il disordine. Proprio quando la potenza tecnologica ha fornito i mezzi più efficaci alla società, questa si è disinteressata dell’argomento e anzi ha prodotto gran parte delle sue espansioni urbane in totale dispregio ai criteri più elementari.
Eppure era stata avvertita nella forma più drammatica e persuasiva. L’alluvione del Polesine nel novembre 1951 mostrava che anche gli argini più poderosi -e quelli del Po’ lo erano- non bastavano contro una piena eccezionale. Non era ambiente urbanizzato, ma campagna di recente insediamento con una intensa diffusione di case rurali nelle terre basse tra Po’ e Adige. Così, in seguito all’evento, più di centomila contadini furono costretti a un’emigrazione senza ritorno. Dopo soli 15 anni l’alluvione di Firenze nel novembre 1966 avrebbe dovuto esercitare la persuasione definitiva per indurre a una prudenza elementare. Per un paese serio Polesine 1951 e Firenze 1966 potevano essere l’avviso ineluttabile della necessità di una gestione ragionata e complessiva del territorio e in particolare della sua rete idrografica. Invece la risposta dell’intera società fu di accomodarsi con la lente interpretativa dell’eccezionale.
Ammettiamo pure che un evento catastrofico sia eccezionale, ma se si è verificato potrà anche ripetersi. Sarà difficile prevedere in quanti anni, ma in ogni caso sarà necessario stabilire misure di salvaguardia. Di fronte al rischio alluvione due sono i compiti essenziali. Si deve fare di tutto per rallentare l’arrivo delle masse d’acqua nei territori più delicati e nelle aree urbanizzate; si deve smettere di costruire nelle zone più facilmente allagabili.
Sul primo punto la natura ha dato una mano. L’abbandono della montagna ha prodotto un aumento dei boschi e, se è vero che in certi casi il bosco inselvatichito può aggravare fenomeni franosi, è indubbio che la dilatazione della superficie boschiva aiuti a rallentare il deflusso. Ma l’azione umana è mancata o si è addirittura orientata in senso opposto. L’assenza di manutenzione dei versanti ha prodotto la rovina di terrazzamenti con muri a secco o ciglioni e ha aumentato l’energia del ruscellamento. Un parossismo di questo tipo ha ingigantito il disastro delle Cinque Terre (ottobre 2011). Più a valle la modificazione artificiale del reticolo idrografico originario, con alvei in cemento che accelerano la velocità di deflusso, strettoie ingiustificabili, ponti troppo bassi, segmenti tombati, ha aggravato il rischio di straripamento. Altra mancanza essenziale riguarda il dispositivo funzionale per far sfogare le piene: le casse di espansione dove il fiume può dilatarsi per evitare danni a valle o non sono state costruite affatto oppure sono restate in numero largamente insufficiente. Anzi la tendenza imperante ha sottratto al dominio dei fiumi ampie plaghe laterali per destinarle ad altri usi. Così durante le piene i fiumi si riprendono ciò che è stato loro sottratto.
Ma non solo non si è riusciti a rallentare le piene a monte degli insediamenti, si è aggiunta in vari casi la costruzione di impedimenti strutturali che ostruiscono il passaggio delle acque al loro ingresso in città. I corsi d’acqua che in contesto urbano vengono coperti e fatti scomparire dal panorama cittadino sono detti “tombati”. L’aggettivo è involontariamente espressivo: corrono, se possono, in una tomba lineare. C’è stata un’epoca in cui il progresso lo esigeva. I navigli milanesi vengono tombati per un tributo alla modernità. Ma forse ora la Milano consapevole rimpiange i suoi navigli scomparsi; ne aveva scritto in modo evocativo Alberto Vigevani. E comunque i canali non hanno la potenza dei fiumi. Gli stessi milanesi hanno dovuto prendere atto che tombare il Seveso (luglio 2014) ha fatto conoscere alla città l’effetto inevitabile anche in pianura alluvionale: se un reticolo idrografico in cemento avvia a velocità innaturale la piena dentro l’imbuto del segmento tombato il fiume che non riesce a passare di sotto è costretto a passare di sopra.
Infine la manutenzione degli argini è diventata attività fantasma. Già nella seconda metà settecento il granduca di Toscana scriveva che una sola buca di talpa può produrre, durante la piena, la rottura dell’argine. Gli argini dovrebbero essere costantemente sorvegliati e riparati. Una piena drammatica può scavalcare l’argine, ma si dovrebbe almeno fare tutto per evitare che questo si rompa: rotture invece avvengono ovunque. Esempi di grande e recente evidenza si sono avuti nelle piene del Bacchiglione a Vicenza (novembre 2010), del Secchia nel modenese (gennaio 2014) e del Misa nel territorio di Senigallia (maggio 2014).
Sul secondo punto -evitare di costruire nei luoghi sbagliati- è stato fatto proprio il contrario. E’ impressionante la diffusione di aree residenziali, artigianali, industriali, commerciali in zone di espansione naturale di fiumi e torrenti nelle aureole periferiche di città grandi e piccole. Impossibile riassumere qui. Basta consultare i repertori in rete per disegnare, con l’aiuto delle loro mappe colorate, la geografia dell’urbanizzazione autolesionista. Sembra che in troppi casi i soggetti privati e pubblici che hanno progettato, promosso, disposto, realizzato le nuove aree si siano posti l’obbiettivo di localizzarle proprio dove era più sicuro il rischio di alluvione. Uno sguardo antologico su queste zone alluvionate mostra un’organizzazione dei deflussi ridicola, se non fosse drammatica: aree vaste drenate da fossi in cemento così angusti da apparire vere e proprie strette trincee, adatte solo al regime di magra in cui sono state costruite e del tutto incapaci di accogliere il volume di una piena occasionale. Ciò avviene dappertutto, non solo nelle periferie delle grandi città: l’ultimo esempio, per ora, è Olbia, novembre 2013. Dopo i danni, i sindaci sono costretti a chiedere il riconoscimento dello stato di calamità naturale; ma in gran parte dei casi si tratta di calamità artificiale perché se si costruisce negli ambiti di espansione naturale dei fiumi la responsabilità non è del fiume ma di chi ci ha costruito dentro e dell’ente pubblico che lo ha permesso. Il caso recentissimo di Carrara è emblematico. Il Carrione corre dentro un budello strettissimo in mezzo ad abitazioni e laboratori del marmo. Ora tutti fanno scandalo del muro di cemento crollato. In realtà motivo assai più fondato di scandalo è che lì non ci sia mai stato spazio per un vero argine e che non siano state allontanate dal fiume, per una distanza ragionevole, case e laboratori che vi si affollano intorno.
Qui tocchiamo il tema assai spinoso della corresponsabilità dei cittadini. Fatta salva la maggiore responsabilità degli enti pubblici e dei promotori privati, si deve anche considerare la complicità inconsapevole, o obbligata dallo scarso reddito, di fasce di popolazione che si adattano a vivere in luoghi che dovrebbero essere individuati come proibiti, e che anche dopo il disastro alluvionale sottostanno alla necessità di tornare a vivere dove hanno subito danni gravissimi. Impossibile non comprenderli: dove potrebbero andare a stare? Ma, per il futuro, il loro destino dovrebbe essere di stimolo a una riflessione pubblica in grado di produrre la coscienza civile del necessario primato dell’ordine idraulico in qualsiasi iniziativa di urbanizzazione.
L’esperienza di Genova negli ultimi anni ha dimostrato che l’eccezionale è normale: ottobre 2010, novembre 2011, ottobre 2014. Quindi è necessario fare i conti con la sua normalità. Purtroppo il problema di Genova è affrontabile alla radice solo con una soluzione eccezionale: smontare completamente la piastra urbanizzata che sovrasta il corso fluviale e ridare al fiume tutta la libertà di movimento che la natura esige. Ma una fantasia razionale come questa è irrealizzabile. Così in tutti gli altri casi in cui la città si è sovraimposta al cammino del fiume.
Ma per tutto il resto dovrebbe valere il principio della ricerca di una nuova normalità. Come oggi il cittadino è obbligato a “mettere a norma” un impianto elettrico arcaico, allo stesso modo la società dovrebbe sentire l’obbligo di adottare sistematicamente tutte le misure necessarie per garantire l’ordinaria manutenzione del territorio.
Restaurare le sistemazioni di versante capaci di trattenere l’acqua e frenare il ruscellamento: terrazzamenti con muri a secco, ciglioni con proda erbosa. Limitare il più possibile le sistemazioni agrarie orientate nel senso del pendio, che accelerano l’acqua in discesa e quindi incrementano la dissipazione di miliardi di tonnellate di terra sottratte ai versanti. Convincere gli agricoltori che, anche in pianura, la semplificazione della rete degli scoli comporta la riduzione dei tempi di corrivazione e quindi la crescita più rapida delle piene in torrenti e fiumi. Ridare a tutti i corsi d’acqua gli spazi laterali necessari alla loro libertà e, di conseguenza, impedire qualsiasi restringimento degli alvei. Assicurare la sorveglianza e la riparazione costanti degli argini. Incrementare la costruzione di casse di espansione fluviale. Garantire la pulizia delle rive con l’asportazione preventiva degli alberi sulle sponde destinate al collasso per evitare che i tronchi fluitati si ammassino facendo tappo sotto le volte dei ponti; può sembrare dettaglio pedante, ma quante alluvioni urbane sono prodotte dal tappo sotto i ponti? Scoraggiare risolutamente insediamenti nelle aree prossime allo sbocco di affluenti dentro il fiume principale, dove la forza dirompente dell’esondazione di piena può raddoppiarsi. Stabilire che non si possano tombare corsi d’acqua soprattutto in ambito urbano. Assicurare che le nuove superfici urbane e periferiche siano permeabili. Smantellare i canali in cemento e restituire ai reticoli idrografici la loro naturalità originaria. Rendere impossibile l’urbanizzazione nelle zone che hanno già subito alluvioni e in quelle che potrebbero esservi soggette a causa delle basse quote.
A questo proposito l’attenta osservazione dell’insediamento storico aiuta perché l’esperienza aveva insegnato a scegliere, anche nelle apparenze più piatte, il luogo insensibilmente più alto. Esempio minore ma istruttivo: nella recente alluvione nella piana costiera dell’Albegna (novembre 2012), ad Albinia solo il nucleo originario attorno alla strada principale non è stato raggiunto dall’acqua: chiesa, farmacia, consorzio agrario, case a schiera, esercizi commerciali. Tutto il resto, dieci volte più esteso, invaso dal fango.
La manutenzione del territorio non si ottiene senza investimenti e senza lavoro umano. Ma investimenti e lavoro sono l’unica garanzia per evitare che la società paghi costi assai più rilevanti solo per rimediare di volta in volta i danni subiti, e continuare a pagarli all’infinito tutte le volte che i disastri si rinnovano. Di più: questa branca di lavoro socialmente utile potrebbe offrire grande varietà di occupazione, dalla semplice manovalanza alla prestazione qualificata, in grado di ridurre sensibilmente la disoccupazione giovanile.
I terremoti non sono evitabili ma si può tentare di ridurne i danni con procedure costruttive e tecniche di restauro adeguate. Anche le grandi frane in gran parte sono inevitabili ma una buona cartografia della franosità può almeno scoraggiare insediamenti nei loro pressi. Con la manutenzione ragionata del territorio si può invece affrontare il disordine idraulico con misure efficaci a ridurlo drasticamente. Ma bisogna far diventare prevalente nella società il principio culturale che non possa esservi processo di urbanizzazione se prima non si è garantito col massimo rigore l’ordine idraulico. Ci riusciremo e quando?