In un sistema parlamentare come quello previsto dalla nostra Costituzione repubblicana e ancora in vigore (malgrado Berlusconi e Renzi), il dissenso politico e la costruzione di una alternativa a chi detiene il potere non può che realizzarsi mediante la creazione di un soggetto politico in grado di ottenere il consenso e la delega dei cittadini elettori.
E’ dunque legittimo chiedersi come e se l’iniziativa della FIOM per una ‘coalizione sociale’ si collega a questo percorso che appare ogni giorno più urgente e indispensabile.
Anche se Maurizio Landini ha più volte e senza equivoci affermato che l’obiettivo della ‘coalizione’ non è la nascita di un nuovo partito, quanto piuttosto la creazione di un’ampia piattaforma di consenso intorno a un programma in campo economico e sociale alternativo a quello dell’attuale governo, peraltro non molto dissimile da quelli dei governi precedenti. Lasciando così ad altri soggetti il compito di tradurre in termini operativi (elettorali e di rappresentanza) l’obiettivo del cambiamento delle politiche.
Non c’è comunque necessità di dimostrare l’utilità di un confronto aperto fra i tanti volti dell’associazionismo per la ricerca di una elaborazione comune in grado di contestare efficacemente, fra le altre, le affermazioni ‘scientifiche’ addotte per giustificare una politica di cancellazione progressiva dei diritti alla stabilità del rapporto di lavoro e a una equa ripartizione del reddito, che costituiscono l’innegabile conseguenza degli atti del nostro attuale governo sul piano occupazionale.
La proposta di una piattaforma comune costituisce anche la migliore risposta alla strategia ultra-liberista della parcellizzazione e della contrapposizione degli interessi, per scatenare una ‘guerra fra poveri’ che lasci ogni micro-gruppo sociale, se non ogni famiglia, soli di fronte allo strapotere delle grandi imprese e della finanza.
Il riferimento al lavoro come valore fondante della Repubblica (art. 1 Cost.), unito ai principi solidaristici ed egualitari che caratterizzano tutta la Carta, non è d’altronde casuale: l’articolo 4 ne fa anzi una condizione della ‘cittadinanza’ (‘Ogni cittadino ha il dovere di svolgere … una attività o una funzione che concorra al progresso … della società’). Lo stesso articolo 41, garantendo la libertà dell’iniziativa economica privata, la condiziona alla ‘utilità sociale’, al rispetto della ‘sicurezza, libertà e dignità umana’ e ai ‘fini sociali’.
La negazione delle tutele che puntano a regolare il potere altrimenti assoluto di una impresa fondata esclusivamente sull’utile finanziario si traduce dunque inevitabilmente in una negazione della democrazia.
Solo una visione unitaria delle conseguenze dell’insieme dei provvedimenti imposti anche sul piano istituzionale da questa maggioranza dichiarata illegittima (come tutto il Parlamento) dalla Consulta consente di valutarne in pieno la gravità e l’incidenza sul futuro delle nuove generazioni.
Il collegamento fra il riconoscimento costituzionale dei diritti dei lavoratori e gli interessi della speculazione finanziaria è stato d’altronde affermato proprio nella ormai notissima quanto infelice relazione della J.P.Morgan, e difendere i primi è condizione essenziale per combattere una visione violenta e rapace dei rapporti umani, che costituirebbe non una risposta ‘innovativa’, ma un ritorno a epoche passate che dobbiamo auspicare irripetibili.
Non ha ragione di esistere dunque una insuperabile divisione fra sindacato e ‘politica’, e non è la prima volta che proprio la necessità di tutelare anche contrattualmente i diritti dei lavoratori ha costituito il terreno di coltura di nuove elaborazioni politiche e delle soggettività che ne hanno fatto la propria motivazione.
La nostra Costituzione repubblicana del 1948 dimostra, anche su questo piano, la sua attualità e lungimiranza.