La posta in gioco

di Francesco Baicchi - 25/03/2014

Può accadere che la vista di un albero, o di alcuni alberi, nasconda la foresta di cui sono parte. E’ l'effetto della prospettiva: quello che ci è più vicino ci appare più grande; così grande da impedirci di vedere tutto il resto.

In questo periodo di politica/spettacolo è lecito pensare che si tenti proprio di indurre questo effetto, 'sparando' in primo piano con ossessiva ripetitività alcune notizie su cui si attira l’attenzione della opinione pubblica, evitando accuratamente di approfondire le motivazioni e le conseguenze di ciò che viene, spesso trionfalmente, promesso.

Per capire la posta effettivamente in gioco in questa fase di ‘riforme’ annunciate, è necessario ricomporre in un quadro unico l’insieme dei punti del programma dell'attuale Presidente del Consiglio, indipendentemente dalle motivazioni addotte per giustificarli singolarmente.

Così la Camera ha approvato una 'riforma' elettorale che avrebbe dovuto sanare l’incostituzionalità del ‘porcellum’, restituendo agli elettori il potere di scegliere i loro rappresentanti, invece il nuovo sistema ripropone, spesso aggravandoli, tutti i difetti del precedente. Ora si vorrebbe approvare rapidamente una 'riforma' del Senato per ridurre i presunti danni del bicameralismo perfetto e contenere i 'costi della politica', mentre si intende semplicemente abolirlo come camera elettiva, invece di rimuovere gli scandalosi privilegi della 'casta' politica, che va ben al di là dei trecento senatori.

E la ricetta per l’occupazione non va al di là dell’ampliamento del precariato.

Se il nuovo sistema elettorale entrasse in vigore, un solo partito, anche se avesse ottenuto al primo turno un consenso assai lontano dalla maggioranza, potrebbe ottenere un 'premio' che gli consentirebbe di controllare quello che resta del Parlamento, di nominare il Presidente della Repubblica, di condizionare Corte Costituzionale e CSM, di approvare da solo riforme costituzionali. La maggioranza degli elettori, ridotta a minoranza in Parlamento, sarebbe totalmente assente dai processi decisionali.

Ma con l'esclusione delle minoranze e dei nuovi movimenti dal livello parlamentare verrebbe meno la sede del confronto e la possibilità di mediazione su cui si fonda la democrazia, lasciando solo alla benevolenza della maggioranza la possibilità di espressione del dissenso.

A questo stravolgimento dei principi del parlamentarismo non possiamo non sommare la dichiarata insofferenza dell'attuale capo dell’esecutivo e segretario del PD verso le altre forme di rappresentanza: sindacati, associazionismo imprenditoriale, ecc … , del cui consenso dichiara di poter fare a meno, rivendicando il contatto diretto coi cittadini.

Dell'impianto istituzionale e ideale della nostra Repubblica, fondata su una Costituzione nata per impedire il ritorno all'autoritarismo fascista, rimarrebbe ben poco.

Il nuovo assetto, di chiaro stampo populista, porterebbe a una insopportabile concentrazione del potere nelle mani di un gruppo ristretto, rappresentato dal Capo del Governo, con il superamento della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giurisdizionale) e l'annullamento non solo degli strumenti di controllo e garanzia, ma di tutti gli strumenti di partecipazione e di confronto fra governo e aree del dissenso.

E' la 'cura' invocata dagli esperti di J.P.Morgan, che individuano nel modello 'mediterraneo' di difesa dei diritti dei lavoratori e di autodeterminazione dei cittadini la causa della crisi finanziaria, forse nel tentativo di far dimenticare le proprie responsabilità nella stessa crisi, per cui sono già stati condannati a pesanti sanzioni.

Che il progetto su cui è stato raggiunto l’accordo fra Renzi e Berlusconi sia proprio questo viene quotidianamente confermato dalla esplicita ricerca del consenso popolare diretto con una politica di annunci clamorosi, di provvedimenti di incerta credibilità, che vengono incontro anche a rivendicazioni popolari (pensiamo all'intervento sugli F35), ma non riescono a nascondere la pura e semplice ricerca di un consenso acritico in vista della consultazione europea del 25 maggio.

Forse definire questo modello 'peronista' può essere considerato eccessivo, ma induce a qualche riflessione.

Questa è la posta in gioco, e per valutarne in pieno l'importanza occorre considerare che viviamo senza dubbio un momento di discontinuità anche culturale, che impone il superamento di vecchi strumenti di analisi.

L'esaurirsi delle risorse energetiche e alimentari (pensiamo all'acqua), il degrado ambientale, l'inarrestabilità dei flussi migratori, l'assenza di strumenti di regolazione della speculazione finanziaria, il dilagare della violenza sotto forma di guerre e terrorismo sono tutti fenomeni che sfuggono alla dimensione nazionale e rendono risibili sia le scaramucce e i personalismi del nostro teatrino politico, che i rigurgiti nazionalistici.

L'insieme di questi fenomeni non può essere affrontato senza profondi mutamenti del nostro modello di vita e dei nostri consumi, e richiede perciò un reale, convinto consenso popolare in classi dirigenti degne di fiducia, ottenibile solo con un sistema istituzionale parlamentare quale quello disegnato, al termine della seconda guerra mondiale, dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e ripreso dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea.

Il nostro Paese e l'Europa intera hanno senza dubbio bisogno di riforme, ma certo non di un arretramento che cancelli le conquiste di pace, libertà, solidarietà e uguaglianza dei nostri padri, per consegnarci nelle mani di nuovi 'uomini della provvidenza'.

E' dunque necessario respingere affrettate modifiche istituzionali, confermare la validità dei Principi su cui si fonda la nostra Repubblica e pretenderne il rispetto, rifiutando la scorciatoia di una soluzione presidenzialista, vecchia e storicamente superata, che non potrebbe che portare a assetti autoritari, e lascerebbe a chi non si adegua, ai cittadini responsabili e impegnati a difendere i loro diritti, solo la piazza.

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