L'esito del referendum turco, anche se con ogni probabilità falsato da brogli e comunque condizionato dall'essersi svolto in un regime di rigida censura e persecuzione dei sostenitori del NO, ci offre motivi di riflessione su quanto può accadere (o sta già accadendo?) anche nei nostri Paesi europei.
Gli analisti ci dicono che, prendendo per buoni gli stessi dati forniti dal governo, hanno votato si, quindi in favore della trasformazione della repubblica turca in un regime iper-presidenzialista, le campagne e le città più remote, mentre si sono opposti gli strati più colti, laici e 'benestanti' delle grandi città. In particolare viene confermato il successo di Erdogan fra gli emigrati turchi residenti in Germania, prevalentemente appartenenti alla classe operaia.
La concentrazione del potere assoluto nelle mani di un leader carismatico sembra dunque affascinare sempre più gli strati meno privilegiati della società.
Il fenomeno non è certo nuovo, ma la necessità di una seria riflessione della sinistra su questa involuzione appare ogni giorno più urgente, prima che la sfiducia nelle istituzioni democratiche da parte proprio delle categorie che intende rappresentare divenga irreversibile.
Dobbiamo chiederci cosa spinge ampie aree della opinione pubblica popolare ad accettare passivamente un regime di polizia non esente da fenomeni corruttivi, rinunciando alla partecipazione alle scelte politiche, alla libertà di espressione, alla giustizia uguale per tutti.
Il feroce controllo dei mezzi di informazione ha certo un ruolo fondamentale, fornendo dei fatti e delle persone una visione lontana dalla realtà e solleticando i fantasmi del fanatismo nazionalista con l’evocazione di presunti 'nemici' esterni. Ma forse ancora più importante è la sensazione della incapacità, se non della inutilità, della politica a risolvere i problemi della vita quotidiana, certo più assillanti nei ceti popolari. E di fronte alla crisi indotta e cavalcata dalla speculazione finanziaria internazionale e al dramma delle migrazioni di massa forte è la tentazione dell’arroccamento a difesa di livelli di consumo minacciati.
Parafrasando una battuta infelice, sembra si stia diffondendo la convinzione che ‘la democrazia non si mangia’.
Ma l’aspetto più drammatico sembra essere la caduta della speranza di una società migliore, e la conseguente rinuncia a operare per realizzarla, rifugiandosi nell’individualismo e nel consumismo quotidiano, quando non nella lotta per la pura sopravvivenza.
Così quello che dovrebbe essere un confronto fra scelte programmatiche si trasforma in un insopportabile chiacchiericcio, i tempi di riflessione appaiono inutili ritardi, la ricerca della mediazione e della convergenza diventa un indegno mercato.
Anche in Europa (ma non solo), specialmente nelle periferie, nei quartieri-ghetto, là dove si concentra la disoccupazione e cresce la povertà, si moltiplicano i focolai di qualunquismo, la tentazione di affidarsi al o alla demagogo/a di turno, che promette sicurezza e velocità, o anche semplicemente più beni di consumo. Nel loro programma c’è sempre una riforma costituzionale, per cancellare diritti e concentrare il potere in poche mani, per limitare o stravolgere la libertà del voto, per controllare l’indipendenza della magistratura; magari, come in Turchia, per re-introdurre la pena di morte.
Quanto ha influito su questa involuzione la degenerazione della classe politica, la dilagante corruzione, la disinvoltura delle promesse elettorali immediatamente tradite, l’arroccamento a difesa dei privilegi, l’allargamento della distanza fra i (pochissimi) privilegiati e la maggioranza sfruttata?
A questa disperazione le forze politiche tradizionali, spesso impotenti di fronte al potere senza controllo della finanza internazionale, non sembrano più riuscire a fornire una speranza di alternativa credibile, si attardano nella difesa di un modello sociale egoistico e competitivo, che ci trasforma da cittadini in consumatori, e nella mitizzazione del ‘mercato’.
Il referendum turco e la crescita dei movimenti della destra nazionalista e autoritaria in molti Paesi europei costituiscono segnali inequivocabili dei rischi che corriamo.
Non è la prima volta che uno o più popoli applaudono e votano un dittatore, più o meno effimero; ma ogni volta aumenta il rischio che sia l’ultima possibilità che abbiamo di scegliere.