Non si può negare che Matteo Renzi stia dimostrando una grande abilità nell’utilizzare le strategie del marketing; in questo sembra aver superato il suo maestro Berlusconi.
Come in tutte le promozioni pubblicitarie, nelle sue continue esternazioni il reale impatto delle ‘riforme’ che sta imponendo, facendole votare a un Parlamento sotto ricatto, viene sempre messo in ombra dalla presentazione di qualche vantaggio (vero o presunto) di forte impatto mediatico.
Se esaminiamo tutti i provvedimenti messi in campo è agevole notare che in ognuno di essi, anche nei più inaccettabili, è effettivamente presente qualche elemento (in genere marginale) che risponde a esigenze dettate almeno dal buon senso, se non addirittura da aspirazioni di equità, colpevolmente ignorate finora da una classe politica ripiegata sui propri privilegi.
Fra gli esempi più evidenti la modifica dell’istituto del referendum abrogativo, per il quale si riconosce finalmente la necessità di calcolare il quorum richiesto (50% + 1) sui votanti delle ultime elezioni politiche invece che sul totale degli elettori potenziali, ‘sterilizzando’ l’astensionismo fisiologico che ha di fatto falsato l’esito di consultazioni importanti (vedi quella sulla legge 40 – Maternità assistita).
Purtroppo l’esca nasconde sempre il pericolo dell’amo; in questo caso l’intervento condivisibile viene sostanzialmente vanificato dal vincolo della necessità di raccogliere non più 500.000, ma ben 800.000 firme per proporre il referendum.
Nella riforma del mercato del lavoro (giovanilmente ribattezzata Job’s Act), l’esaltazione del contratto ‘a tutele crescenti’, che apparentemente non ha scadenza, nasconde la cancellazione del rapporto a tempo indeterminato. Infatti la facoltà di licenziare con assoluta arbitrarietà, riconoscendo al dipendente solo un limitato bonus inferiore ai vantaggi fiscali riconosciuti per le nuove assunzioni, rende oggettivamente conveniente per il datore di lavoro rompere il contratto alla scadenza del terzo anno.
Nella nuova legge elettorale, voluta dal governo per impedire l’applicazione del sistema proporzionale risultante dalla sentenza n.1/2014, il ‘trucco’ consiste nel ripristinare le preferenze, ma renderle quasi inutili mediante la priorità riconosciuta ai capilista (che si possono presentare ognuno in 10 dei 100 diversi collegi). Con l’applicazione del ‘premio’ che assegna al primo partito 340 dei 618 seggi disponibili, si calcola che praticamente circa i 2/3 dei seggi andrebbero ai candidati prescelti dai partiti.
Gli esempi potrebbero continuare, ma il procedimento è sempre lo stesso: sotto la appetitosa ciliegina c’è sempre una torta avvelenata.
Come autorevolmente denunciato, la visione d’insieme delle varie ‘riforme’ disegna il quadro allarmante di una feroce concentrazione del potere, peggiore, come è stato scritto, di quella prevista dal monarchico Statuto Albertino. Giustificata con obiettivi di economicità ed efficienza di facile presa mediatica, ma tutti da dimostrare.
I rischi legati alla progressiva delegittimazione del Parlamento, ridotto a una sola Camera e schiacciato da nuove procedure vincolanti che estendono la decretazione d’urgenza come iter ‘normale’ e arbitrario, all’attacco al ruolo del sindacato, allo stravolgimento del principio di rappresentanza sacrificato al mito della ‘stabilità’ grazie a una legge elettorale che distorce la volontà popolare e alla riduzione del suffragio universale (province e senato a elezione indiretta), al tentativo di comprimere il dissenso politico e sociale (con l’imposizione del ‘partito della nazione’ da un lato e aumentando la precarietà del lavoro dall’altro) non vengono così sufficientemente percepiti dall’opinione pubblica, sommersa da dichiarazioni trionfalistiche e arroganti ma sostanzialmente false.
Basta pensare all’arroganza con cui il capo del governo rivendica quotidianamente il ‘diritto’ a imporre le sue decisioni, dimenticando di ricordare che la sua è una maggioranza parlamentare frutto di una frode elettorale condannata dalla Corte Costituzionale e rappresentativa di meno del 30% degli elettori, e al ruolo essenziale giocato dal sistema della comunicazione di massa quasi totalmente asservito e passivamente ripetitivo degli slogan renziani.
In questa condizione, se arrivassimo a un referendum popolare sulle ‘riforme’ che stanno stravolgendo le istituzioni della Repubblica, potrebbe essere difficile mostrare l’amo che si nasconde dietro l’esca dei ‘cambiamenti necessari’, che potrebbe riportarci all’ uomo solo alcomando che la stessa presidente della Camera Boldrini sembra individuare e che l’Italia ha già vissuto all’inizio del secolo scorso.
Mai come in questa fase la libertà e il pluralismo della informazione sono condizioni essenziali per una democrazia non solo formale, ed è indispensabile quindi non stancarsi di denunciare l’inganno, per distinguere le riforme necessarie e condivisibili (anti-corruzione, riforma della prescrizione, lotta all’evasione e riforma fiscale in senso progressivo, ritorno a un sistema elettorale costituzionale, ecc…) da quelle che servono solo a conservare il potere politico ed economico nelle mani di chi lo gestisce da sempre, cioè l’esca dall’amo a cui si cerca di farci abboccare.