«ET homo factus est». Così, parodiando il Credo, scrisse Pasquino nel 1656, quando papa Alessandro VII rinunciò a una riforma radicale del sistema nepotistico, e si rassegnò a chiamare a Roma tutta la sua famiglia senese. «Homines facti sunt», si può dire oggi dei 5 stelle, che dopo aver promesso di rovesciare il sistema dalle fondamenta, escono dalla vicenda dello Stadio come la più mediocre giunta post-democristiana.
La situazione ha del paradossale. Perché oggi rimane deluso chi dal Movimento si aspettava una svolta radicale. Mentre possono tirare un respiro di sollievo tutti coloro che li hanno temuti e attaccati ferocemente perché ‘antisistema’, o addirittura ‘eversivi’. Altro che alieni: tutto il ‘sistema’ si frega le mani, avendo scoperto che anche con questi ‘alieni’ si tratta, eccome. Non perché siano corrotti, sia chiaro: ma perché sono impreparati, e culturalmente fragili.
Sono bastati i tweet di Totti e le minacce di Pallotta a far squagliare ogni velleità di resistenza: alla prima vera prova, il populismo antisistema si è inchinato al populismo del sistema.
La cosa più triste è che, in tutto questo, sembra che di Roma — della città, intendo — non importi molto a nessuno. Perché i casi sono due: o il progetto era una speculazione inutile, e allora si doveva avere il coraggio di fermarlo. O, invece, era di interesse pubblico (come aveva ufficialmente affermato la giunta Marino): e allora bisognava realizzarlo in modo coerente.
Ma dimezzarlo, con una logica da salumiere, lascia esterrefatti. È un risultato che svela una simmetrica ipocrisia: quella, eterna, degli speculatori (ai quali importa solo far soldi, con qualunque progetto, alla faccia delle archistar coinvolte), e quella di una giunta che prova a salvare una facciata ambientalista.
Quel che muore è ogni idea di progetto. L’idea che si rompesse una volta per tutte con l’urbanistica contrattata. L’idea che i cittadini, una volta entrati nel palazzo, avessero la forza di riprendersi il futuro della città, togliendo il boccino dalle mani dei palazzinari.
La mancata sostituzione di Paolo Berdini è un dettaglio eloquente: una scelta di questo peso è stata fatta senza un tecnico alla guida. Dopo aver detto tutto e il contrario di tutto (fino all’imbarazzante girandola romana di Beppe Grillo), hanno prevalso purissime ragioni politiche: la stella polare è stata la paura di perdere troppi consensi, mettendosi contro i tifosi.
Mentre si doveva avere il coraggio di dire a chiare lettere che il calcio è ormai solo un paravento di grandi operazioni finanziare e immobiliari che stravolgono le città, trattando i cittadini come plebe (assai spesso, peraltro, una plebe consenziente).
Sono stato tra coloro che hanno invitato a votare Virginia Raggi. L’ho fatto per rompere la politica del TINA («There is no alternative »), il motto della Thatcher e di Blair che in Italia ha unito in un cartello il Pdl e il Pd.
Ma oggi anche i 5 stelle si uniscono al coro di chi proclama che a questo sistema di potere non c’è alternativa: davvero unbrutto giorno per la democrazia italiana.