Il tentativo di banalizzare l’esito del voto referendario, trasformandolo in un incidente di percorso e imputandolo a fattori di scarso rilievo politico, come la ‘antipatia’ naturale di Matteo Renzi o la ‘personalizzazione’ del confronto, costituisce un’ulteriore dimostrazione della intenzione di ignorare la volontà espressa dalle elettrici e gli elettori. Se la composizione del nuovo governo-fotocopia di Gentiloni ne è la prova lampante, gli insulti provenienti da ‘miracolate della politica’ come la Serracchiani, la Puppato o la stessa Boldrini ne rappresentano l’aspetto folkloristico.
In realtà siamo di fronte a un evento che merita una analisi approfondita e oggettiva, che può costituire un punto di partenza essenziale per il confronto politico non solo italiano, e l’impegno profuso nel negarlo di fatto lo conferma.
La scelta proposta dal referendum, che non poteva essere scissa dalla forzata entrata in vigore dell’italicum, andava ovviamente al di là del merito delle singole modifiche alla Carta: si trattava di accettare uno scambio tra diminuzione della rappresentanza e della sovranità popolare e la presunta ‘velocizzazione’ delle scelte politiche del governo.
Che di questo ulteriore rafforzamento dell’esecutivo non ci fosse necessità né desiderio è stato confermato dal voto.
Ma non possiamo evitare di chiederci come sia stato possibile che una simile ‘riforma’ abbia trovato in Parlamento una maggioranza disposta a votarla, e di quale strategia politica sia stata il frutto. Anche perché chi l’ha proposta non sembra disponibile a prendere atto della sconfessione subita, e la maggioranza parlamentare, illegittima, che l’ha votata è ancora in carica ed in grado di tentare ulteriori colpi di mano.
Il problema di fondo, non solo italiano, sembra essere la apparente contraddizione fra una crescente consapevolezza delle conseguenze disastrose di un sistema politico che ha fatto del ‘mercato’ (cioè della finanza speculativa) il suo unico riferimento, e il progressivo allontanamento degli elettori dagli strumenti istituzionali della rappresentanza, che ha consentito l’affermazione di metodi e procedure lontani dai principi e dalla stessa legalità costituzionale.
Di fronte alla incapacità di una classe politica arroccata a difesa del proprio potere, indifferente o incapace di interpretare le nuove esigenze della società civile, una parte crescente degli elettori ha preferito l’astensionismo o uno sterile voto di pura protesta.
La modifica in senso accentrato e potenzialmente autoritario della Costituzione italiana costituiva il tentativo di superare definitivamente i principi della democrazia parlamentare rappresentativa, ed era forse solo un primo esperimento da duplicare in altri Paesi.
L’esito del referendum costituzionale, per la grande partecipazione non meno che per il rifiuto degli elettori a rinunciare alla propria sovranità, ha dimostrato invece una nuova richiesta di partecipazione e di autodeterminazione, che va al di là del quadro esistente e può costituire la base di partenza per una nuova stagione politica.
In questa prospettiva la diffusa richiesta di non sciogliere la rete dei comitati locali che sono stati protagonisti della campagna referendaria, organizzando migliaia di volontari di diverse appartenenze e fasce di età, assume un significato particolare.
Il ritorno a un pieno rispetto dello spirito e della lettera dalla Costituzione repubblicana e antifascista, e l’impegno per la realizzazione dei principi di equità, solidarietà e legalità su cui è fondata,costituiscono una piattaforma valida e sufficiente per ricostruire un quadro condiviso di convivenza, indispensabile al rilancio del Paese e al rinnovamento della sua classe dirigente.
Dopo i ripetuti fallimenti dei vari tentativi di riunificare le tante sigle (e i tanti dirigenti) della sinistra, protagonisti di questa nuova fase non possono che essere i singoli cittadini, che, senza rinunciare alle storie di ognuno, si impegnino a superare protagonismi e bandiere del passato per nuovi metodi del confronto politico.
Col referendum non è stato sconfitto solo Matteo Renzi, ma il disegno di sostituire alla ricerca del massimo consenso la logica del ‘chi vince piglia tutto’, delle ‘cordate’, delle coalizioni di comodo, del trasformismo. L’esperienza dei ‘comitati’, come quella delle campagne referendarie del 2006 e del 2011, sono portatrici di nuovi rapporti anche umani, della interazione informale fra competenze e entusiasmo, responsabilità e utopia.
E’ questo il patrimonio che non possiamo permetterci di perdere. Perché il 4 dicembre è successo qualcosa di importante e non dobbiamo permettere che lo si dimentichi.