Perché votare

di Francesco Baicchi - 13/06/2013
L'esito delle amministrative di questi giorni, oltre a rendere ancora più assurda la situazione del nostro Paese e ingiustificabile la maggioranza anomala che lo governa, segna in modo chiaro una nuova linea di alternativa politica.

Infatti, invece di prendere atto della loro incapacità, numerosi esponenti politici e alcuni loro prezzolati consulenti si sono esibiti nel difficile esercizio di dimostrare che non votare è sintomo di democrazia.

Certo qualcuno ha parlato dell'astensionismo più che altro per delegittimare i vincitori, ma ben pochi hanno espresso quella che avrebbe dovuto essere una doverosa autocritica; e naturalmente nessuno ne ha tratto le conseguenze cambiando definitivamente attività.

Anche trascurando il dettato costituzionale che indica nel voto un 'dovere civico' (art. 48), viene spontaneo chiedersi quale idea di democrazia può portare a questa conclusione.

Mai come in questa fase storica ognuno di noi è stato totalmente dipendente dalle scelte politiche; in nessuno degli atti della nostra vita quotidiana siamo autonomi dal contesto ambientale e dagli altri. Rinunciare a influenzarli con le nostre decisioni è una scelta ragionevole?

C'è chi ha fatto notare che nel nostro Paese dal dopoguerra la partecipazione al voto è stata fra le più alte, quasi fosse una anomalia negativa. Ma l'Italia è anche la nazione che nel 1947 ha varato una delle più belle Costituzioni, cui si è addirittura ispirata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, frutto della convergenza fra culture politiche lontane e contrapposte, in una terra di frontiera fra due blocchi che per decenni si sono confrontati nella 'guerra fredda'. A Roma è stato sottoscritto il Trattato che ha consentito il più ardito (e nonostante tutto ancora valido) esperimento di politica della storia: la cancellazione di secoli di guerra e la creazione di una cultura comune che non è né inclusione né tolleranza, valida per tutta l'Europa.

Dovremmo vergognarcene, per imitare modelli che forse hanno garantito maggiore ricchezza, ma certo non una civiltà più avanzata?

Nel mondo si sta diffondendo proprio una crescente richiesta di partecipazione, che va dalla occupazione delle piazze nei paesi mediterranei a occupy Wall Street, dalla battaglia per la libertà di informazione nella rete internet ai vittoriosi referendum per i beni comuni in Italia; dalle prime lotte per i diritti sociali in Cina a quelle contro la dilagante violenza sulle donne nelle sue tante forme.

Ovunque cittadini responsabili e pacifici danno vita a organizzazioni spontanee che denunciano gli errori di classi dirigenti avide, arroccate ai loro privilegi, che difendono talvolta disuguaglianze sempre meno accettabili e disumane.

Ora anche nei Paesi retti da ordinamenti democratici è necessario interrogarsi su come tenere conto di queste nuove rivendicazioni, coinvolgendo e dando rappresentanza a quanti stanno progressivamente acquisendo coscienza che il modello del consumismo fine a se stesso, del 'mercato' che spinge a vivere per comprare e distruggere a ritmi sempre più frenetici, ci spinge verso un punto di non ritorno.

Se queste persone non vanno a votare evidentemente è perché ritengono questo strumento poco utile, perché sono stati traditi dai rappresentanti cui avevano dato la loro fiducia, o perché non riescono a organizzarsi a causa di cavilli e vincoli burocratici, che li escludono dai meccanismi della rappresentanza. Il successo dei referendum spontanei (da quello costituzionale del 2006 a quello più recente per l'acqua pubblica) ne sono la dimostrazione.

Arroccarsi dietro ingegnerie istituzionali assurde come l'attuale legge elettorale, concentrare sempre più il potere in una ristretta oligarchia che punta a controllare l'opinione pubblica con il monopolio dei media e comprimendo la libertà di informazione (magari vietando le intercettazioni o la pubblicazione delle notizie scomode), riducendo il ruolo del Parlamento e l'indipendenza della Magistratura, e addirittura giustificando la repressione violenta delle manifestazioni è come tentare di arginare la marea con un muro di sabbia. Rifiutarsi di guardare avanti e esporsi al rischio che la protesta trovi altri metodi per esprimersi.

Anche da chi ha vinto questa tornata elettorale, o forse soprattutto da chi ha vinto, dobbiamo pretendere un cambiamento profondo.

Il recupero della credibilità e del prestigio delle istituzioni democratiche rappresentative, il ritorno al modello del confronto e l'abbandono della ricerca del bipartitismo imposto solo per tutelare i gruppi dirigenti, il rifiuto definitivo della 'dittatura della maggioranza' sono gli obiettivi su cui dovremo distinguere chi vuole procedere sulla via della civiltà e chi 'guarda con fiducia al passato'.

A questi principi dobbiamo chiedere siano ispirate le proposte di aggiornamento della nostra Carta Costituzionale che alcune alte cariche dello Stato dichiarano di ritenere indispensabili.

Denunciando senza esitazioni l'inganno di chi, alla richiesta di esercitare più efficacemente quella sovranità che l'articolo 1 della Costituzione assegna al popolo, risponde con modelli 'presidenziali' fondati sulla scelta plebiscitaria di una sola persona, cui affidare un potere quasi assoluto. Sarebbe, come diceva Leopoldo Elia, come essere cittadini per un giorno e sudditi per i successivi cinque anni.

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