Ma prima di esaminare questo altrove, soffermiamoci sul caso significativo. La Liguria era in una situazione particolare per tre ragioni distinte: perché il centrosinistra era diviso, perché c'era una percezione di cattiva amministrazione proprio a livello regionale, e perché è la patria di Grillo, che ha rimediato un buon quarto dei voti. La sconfitta della renziana Paita è palesemente dovuta solo e soltanto al primo fattore: se i voti del civatiano Pastorino (9,41%) si fossero sommati al suo 27,84%, avrebbero superato il 38%, ampiamente sufficiente a mettere fuori causa il fiero Toti. Questo, ovviamente, dà un'indicazione importante: senza la sinistra del suo partito, Renzi non vince nemmeno in una regione come la Liguria, non certo una roccaforte berlusconiana. E' difficile non concludere che senza la sua sinistra, Renzi è spacciato. Ne deriva, come dicono tutti, che dovrà rivedere i suoi modi verso quelli che aveva rottamato. E questo è il dato significativo.
Queste elezioni regionali non sono per
Renzi una mezza vittoria, non sono una mezza sconfitta. Dietro quello
strombazzato sette a due, si nasconde un'autentica catastrofe. Una
catastrofe che non sta nella perdita della Liguria, che è un caso
significativo, ma del tutto particolare. Sta altrove, dove ben pochi
hanno posato gli occhi.
Ma se fosse tutto qui, non sarebbe poi
un danno così tremendo. Quello che lo dovrebbe inquietare di più è
un fatto più macroscopico: i voti di Paita e Pastorino messi insieme
distano parecchie leghe dal 52% che prese Burlando nel 2010. Si è
perso per strada un quarto dei voti. Fosse soltanto per la Liguria,
questo si potrebbe attribuire, fra l'altro, a quella percezione di
mala amministrazione che abbiamo detto. Ma non è così. La vera
catastrofe sta altrove.
Il primo segnale altamente inquietante
è naturalmente l'astensione. L'affluenza crolla in tutte le regioni,
e non di poco, di circa il 10% in media. Questo è un dato nazionale
molto forte, che non si può che attribuire al clima politico
generale. E tanto più se osserviamo che il crollo è più forte
nelle regioni rosse, con una punta del 13% nelle Marche, mentre è al
minimo nel candido Veneto, con poco più del 9%. Questo indica al di
là di ogni dubbio che, nonostante la fortuna piovuta dal cielo di
una crisi in via di estinzione, Renzi non trascina, non entusiasma e
non ispira. L'esatto contrario di quel che lui vorrebbe, e che
vorrebbe far credere.
Ma non basta. Non siamo ancora arrivati
alla catastrofe, che si nasconde proprio nelle regioni rosse. Nelle
Marche, Luca Ceriscioli vince con appena il 41%, molto lontano dal
53% portato via da Spacca nel 2010. Si può obiettare che lo stesso
Spacca era acrobaticamente candidato da Forza Italia, con la quale ha
preso ben il 14%: obiezione peraltro non robustissima, visto che di
suo ci deve aver messo circa zero. Ma che dire allora dell'Umbria,
dove Katiuscia Marini trionfa con un tenue 43%, al posto dello
scrosciante 57% del 2010? Anche qui soltanto qualche strascico di
folclore locale? E sorvoliamo sulla Campania, dove la affaticata
vittoria di De Luca, col suo 41%, non può non evocare il fantasma
dell'ultima vittoria a sinistra, col 61% di Bassolino nel 2005.
Sorvoliamo altresì sulla Puglia, dove il 47% di Michele Emiliano,
l'unico candidato che non deve proprio nulla a Renzi, è anche
l'unico dato che non sfigura davanti al precedente 49% di Vendola.
Sorvolando sorvolando, arriviamo alla
Toscana, la patria di Renzi. Qui l'affluenza è crollata al 48% dal
61% del 2010 e dal 71% del 2005, senza voler risalire più indietro.
Non sembra che la sua patria sia esattamente innamorata del vigile
Matteo. Il suo candidato Enrico Rossi è stato votato dal 48% del 48%
dei Toscani. Al tempo dei rottamati, lo stesso candidato era stato
eletto con quasi il 60% dei voti validi. E' qui la catastrofe.
Che cosa è successo? Certo, nel 2010
non c'erano i Cinquestelle che adesso hanno preso il 15%, in verità
fra i più bassi dei loro risultati. Ma si badi: la destra (Lega e
Forza Italia, con spiccioli) è scesa dal 34 al 29 per cento,
nonostante l'avanzata della Lega a spese di Berlusconi, e si è perso
nella nebbia il 4,6% che aveva l'Udc. E nel centrosinistra? Nel 2010
Rossi era sostenuto, oltre che dal Pd, che prese il 42%, da Sel,
Sinistra & Verdi, e Italia dei Valori. La sinistra, Sel compresa,
aveva il 9%, l'Idv altrettanto. Adesso l'Idv è scomparsa e la
sinistra, con il bravo Tommaso Fattori, non è andata al di là del
6%. Manca all'appello il 13%. Di tutto questo, il Pd è riuscito a
intercettare, in termini percentuali, solo il 4%, passando dal 42 al
46. In termini assoluti, ha perso quasi 30.000 dei 641.000 voti che
aveva.
Siamo in casa di Renzi, l'uomo che
doveva portare la sinistra alla riscossa: comunque la si guardi, ha
fatto peggio di chi lo ha preceduto, che già non era certo una
fabbrica di prodigi. E, in questo caso, non si può certo accusare la
presenza di un candidato a sinistra: non è una scusante, è il
frutto inevitabile di una precisa scelta politica del leader.
Renzi ha deviato a destra la barra
politica del suo partito e ha fatto di tutto perché non si formasse
alla sua sinistra una forza politica solida. Questi sono i risultati
della sua linea. Forse sarebbe il caso di rivederla.
Quanto a Tommaso Fattori, il suo
risultato non è elettrizzante, ma non è nemmeno un insuccesso.
Può essere un primo passo verso la
costruzione dell'edificio di una sinistra che adesso non c'è.
Noi restiamo qui, ad aspettare,
sognando una sinistra radicalmente nuova, vasta, placida e sapiente,
ispirata e concreta. Una sinistra che sappia di nuovo indicare la
strada a chi crede in un mondo più giusto, più savio, più libero,
più sereno e più bello.