La sentenza della Corte Europa dei Diritti dell’Uomo sulle vicende del G8 a Genova rischia di venire strumentalizzata per imporre l’approvazione ‘urgente’ dell’ennesima legge-burla del governo Renzi, piena di trappole e furbizie che possono annullarne gli effetti concreti nonostante l’introduzione formale (finalmente) del reato di tortura, ancora non previsto dai nostri codici.
Ma i rilievi mossi dai giudici di Strasburgo alla nostra gestione della vicenda non si sono limitati alla constatazione di una specifica carenza normativa, esprimendo valutazioni che meriterebbero una più ampia riflessione.
Ricordiamo che la sentenza è stata provocata dal ricorso di un cittadino italiano (Arnaldo Cestaro, pensionato veneto), vittima delle violenze della polizia nel corso della irruzione nella scuola Diaz.
Il Cestaro ha ritenuto inadeguato il risarcimento ricevuto, ma soprattutto le sanzioni comminate ai suoi aggressori in riferimento agli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali; i due primi articoli sanciscono rispettivamente il divieto della tortura e di pene inumane o degradanti e il diritto a un equo processo.
La Corte, dopo aver riepilogato la vicenda e, soprattutto, aver confermato di non potere né volere entrare nel merito dei fatti della scuola Diaz, ha riconosciuto la tesi del ricorrente, ma ha anche preso in considerazione il procedimento dal punto di vista della sua efficacia dissuasiva e repressiva.
Nel paragrafo 204 del documento della Corte di Strasburgo, in particolare, si legge: “ … questa disposizione (l’art.3, per intenderci), combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1 della Convenzione di ‘riconoscere a ogni persona sottoposta alla sua giurisdizione i diritti e le libertà definiti nella Convenzione’, richiede, coerentemente, che abbia luogo una inchiesta ufficiale effettiva. Questa inchiesta deve poter portare alla identificazione e alla punizione dei responsabili. Se non fosse così, nonostante la sua importanza fondamentale, la proibizione legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe in pratica inefficace e sarebbe possibile in certi casi a funzionari dello Stato calpestare, godendo di una quasi-impunità, i diritti di quanti sono sottoposti al loro controllo.”
Si prosegue al paragrafo 206, chiarendo che: “Quando l’inchiesta preliminare ha portato alla apertura di procedimenti presso la magistratura nazionale è l’insieme della procedura, compresa la fase del giudizio, che deve soddisfare all’obbligo del divieto imposto da questa disposizione. Pertanto, le istanze giudiziarie interne non devono in alcun caso mostrarsi disponibili a lasciare impunite le violazioni all’integrità fisica e morale delle persone. “
Nel paragrafo 208 si identificano infine indirettamente gli aspetti ritenuti insoddisfacenti del nostro sistema: ”… in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da funzionari dello Stato, l’azione penale non dovrebbe estinguersi per effetto di prescrizione, così come l’amnistia e la grazia non dovrebbero essere tollerate in questo campo. Del resto l’applicazione della prescrizione dovrebbe essere compatibile con le esigenze della Convenzione. E’ dunque difficile accettare termini di prescrizione inflessibili e senza eccezioni. Analogamente per quanto riguarda il rinvio dell’esecuzione della pena.”
La conclusione è che: “In sostanza, al termine della procedura penale nessuno è stato condannato per i maltrattamenti perpetrati nella scuola Diaz-Pertini nei confronti, in particolare, del ricorrente, i reati di lesioni semplici e gravi essendo stati prescritti. In effetti le condanne confermate dalla Corte di Cassazione riguardano piuttosto i tentativi di giustificare questi maltrattamenti e l’assenza di motivazione concreta e giuridica per l’arresto degli occupanti della scuola Diaz-Pertini .
Inoltre, in applicazione della legge 241 del 29 luglio 2006, che definisce le condizioni per la concessione di una remissione generale delle pene (indulto), le pene sono state ridotte di tre anni. Ne consegue che i condannati dovranno espiare, al peggio, pene comprese fra tre mesi e un anno di prigione.
Tenuto conto di quanto precede la Corte ritiene che la reazione delle autorità (italiane) non sia stata adeguata, tenuto conto della gravita dei fatti. Ciò la rende incompatibile con le obbligazioni procedurali che discendono dall’articolo 3 della Convenzione.” (paragrafi 221 e 222)
E’ importante sottolineare anche il giudizio espresso sulla nostra Magistratura (paragrafo 224): “La Corte non saprebbe nemmeno rinfacciare alla magistratura interna (cioè italiana) di non aver valutato la gravità dei fatti imputati agli accusati o, peggio, di aver utilizzato de facto le disposizioni legislative e repressive del diritto nazionale per evitare condanne effettive degli poliziotti imputati.
Le sentenze di appello e cassazione, in particolare, dimostrano una fermezza esemplare e non attribuiscono alcuna giustificazione ai gravi fatti della scuola Diaz-Pertini.”
Le responsabilità vengono individuate altrove (paragrafo 225): “La Corte considera dunque che è la legislazione penale italiana applicata al caso che si è rivelata inadeguata a fronte della esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili dell’articolo 3 in futuro. …‘l’applicazione della prescrizione rientra senza dubbio nella categoria delle ‘misure’ inammissibili secondo la giurisprudenza della Corte … , dato che ha avuto per conseguenza di impedire una condanna’.”.
Un’altra parte significativa della sentenza è relativa al comportamento della polizia, sia per la insufficiente collaborazione all’accertamento dei fatti (al limite dell’omertà corporativa), che per la mancata applicazione di sanzioni disciplinari sul piano amministrativo interno. Anzi la Corte su questo ultimo aspetto “…prende atto del silenzio del Governo su questo tema, nonostante la richiesta di informazioni specificamente formulata al momento della comunicazione del procedimento.” (par. 228). Ma forse sarebbe stato difficile spiegare ai magistrati europei la successiva travolgente carriera dell’allora capo della Polizia De Gennaro, attuale presidente addirittura di Finmeccanica.
Può essere interessante citare anche il contenuto del paragrafo 217, che tocca un argomento marginale e inspiegabilmente controverso nel nostro Paese: “La Corte ricorda, in particolare, di aver già deliberato, in merito all’articolo 3 della Convenzione, che l’impossibilità di identificare i membri delle forze dell’ordine, autori presunti di atti contrari alla Convenzione, è contraria alla stessa Convenzione. Ugualmente ha già sottolineato che, quando le autorità nazionali competenti dispiegano i poliziotti col volto mascherato per mantenere l’ordine pubblico o effettuare un arresto, tali agenti sono tenuti a portare un segno identificativo – per esempio un numero di matricola – che, pur salvaguardando il loro anonimato, permetta di identificarli in vista di una loro audizione nel caso in cui lo svolgimento della operazione fosse successivamente contestato.”
Siamo di fronte, al di là degli effetti pratici del riconoscimento del diritto a un risarcimento per il ricorrente, a una autorevole analisi dei mali che affliggono il nostro sistema giudiziario e a precise indicazioni di quanto è necessario cambiare “per conservare la fiducia del pubblico e assicurare la sua adesione allo Stato di diritto come per prevenire l’impressione di una tolleranza verso atti illegali o di complicità nella loro realizzazione.” (par. 206)
Si delinea così il possibile contenuto di una seria ‘riforma della Giustizia’, che coincide ampiamente con quella che da anni viene invocata dai Magistrati più seri e democratici, e ignorata dai governi di centro-destra, guidati da Berlusconi, Monti, Letta o Renzi, che preferisce occuparsi delle ferie dei Magistrati.
Speriamo che la sentenza della Corte europea non divenga invece il pretesto per l’approvazione entusiastica di una legge affrettata e inefficace che introdurrebbe il reato di ‘tortura’, ma, secondo alcuni parlamentari, per renderlo di fatto non punibile.