«Non vi ho subito risposto», caro Bracco, «perché non sapevo veramente che rispondere al desolante resoconto della vostra situazione». Il destino del drammaturgo tacitato dal Duce lasciò interdetto Armand Bour, attore francese anni ’30, come lascia ancora esterrefatti noi, oggi. Un solidissimo autore napoletano di fama internazionale che però il Novecento postbellico si perse per strada invece di beatificarlo, sia per meriti artistici che per intransigenza antifascista quale nessun altro intellettuale non politico strictu sensu. Storia nota, ma non a tutti. Come la vicenda del Nobel che il fascismo praticamente gli strappò dalle mani.
E torniamo a Bour, che scrisse una lettera a Bracco perché vinto dal suo genio dopo aver recitato in alcune piéce: Francesco Soverina ha recuperato e tradotto nel libro Il caso Bracco – Una ferita non sanata(Alessandro Polidoro editore) la missiva, inedita, di cui abbiamo citato l’incipit e ora indicheremo l’epilogo. Questo: «(…) anche Zola dopo il suo J’accuse venne insultato da tutti e i suoi ultimi anni furono deplorevoli. Ma fu reso più grande dal suo comportamento. Vivete questa idea che è la sola vera. L’avvenire non è arrivato. Esso è per voi». Vi si compara dunque il coraggio dei due letterati, Zola e Bracco, l’uno per il caso Dreyfus l’altro per il diniego assoluto del Ventennio. Bour sbaglia però la previsione. L’avvenire non è stato per l’autore, morto a Sorrento nel ’43, a una manciata di settimane dalla destituzione di Mussolini (altra beffa).
La copertina del libro
Scambiamo
 due chiacchiere con Soverina, che riaccende col suo testo l’attenzione 
sul «caso»; richiamino necessario, a mo’ di vaccino, giacché nonostante 
taluni sforzi storiografici Bracco non è stato ancora pagato. 
Come ha scoperto la lettera di Armand Bour? 
«L’ho
 trovata nel Fondo Bracco-Del Vecchio conservato nell’archivio 
dell’Istituto campano per la Storia della Resistenza, dell’antifascismo e
 dell’età contemporanea - spiega -. Nel 2007 la nipote, Aurelia Del 
Vecchio, ha versato tutta la documentazione in suo possesso raccolta nel
 corso degli anni dal grande drammaturgo. È una fonte preziosa che 
comprende anche un cospicuo epistolario. La lettera dell’attore Bour è 
particolarmente significativa per il suo contenuto, in quanto fa 
esplicito riferimento al momento in cui fu scritta (maggio 1933), 
segnato dal dilagare della protervia fascista contro gli artisti 
liberi». 
Perché
 Bracco è stato dimenticato? Persino la pagina su Wikipedia, 
generalmente compilata dagli ammiratori più che da studiosi, è 
striminzita. 
«L’individuazione
 e l’analisi delle ragioni della mancata riscoperta sono tra gli aspetti
 principali del mio libro. Si è trattato di un caso artistico e 
politico. Fu condannato al silenzio dal fascismo e colpevolmente rimosso
 dall’Italia repubblicana. Sarebbe risultato imbarazzante rinverdire il 
ricordo di un artista che durante il Ventennio - a differenza di 
tantissimi altri intellettuali - non aveva accettato compromessi, 
rifiutando vantaggi e onori pur di non piegarsi. Un percorso esemplare e
 istruttivo, dunque, quello di Bracco, che rinvia all’accantonata resa 
dei conti, da parte degli italiani, con il fascismo, tassello cruciale 
del loro recente passato. A ciò si aggiunga il reinsediamento o il 
perdurare, in posti-chiave delle istituzioni afferenti al mondo del 
teatro, di uomini compromessi con il regime come Nicola De Pirro, 
Leopoldo Zurlo e Silvio D’Amico. Ha pesato pure, non poco, la pigrizia, 
la mancanza di coraggio dell’editoria e degli ambienti teatrali».
«Il
 piccolo santo» di Bracco sembra anticipare un po’ la figura del prete 
di Walter Siti che nell’ultimo libro, «Bruciare tutto», scrive di un 
sacerdote che pur attratto da un ragazzino non cede alla tentazione. Ha 
fatto scandalo (feroce dibattito sui media, ecc.). E il prete ‘santo’ di
 Bracco come venne accolto negli anni Venti?
«L’opera,
 messa in scena per la prima volta al Mercadante di Napoli nel 1912, 
riscosse un grandissimo successo. Un regista del calibro di Luigi 
Squarzina, che negli anni ’80 aveva in animo di rappresentarla, la 
considerava un capolavoro, il migliore testo teatrale italiano del 
Novecento unitamente al Cardinale Lambertini di Giovanni Testori. Al di 
là del tema scabroso per l’epoca - l’attrazione di don Fiorenzo per una 
giovane, figlia della donna sposata di cui il sacerdote si era 
innamorato prima di diventare prete, ma con cui non aveva imbastito 
nessuna relazione - Il piccolo santo si è ben presto segnalato come 
un’opera che esplora il subconscio dei personaggi, anticipando di alcuni
 anni il «teatro del silenzio», dell’«inespresso», lanciato in Francia 
da Jean Jacques Bernard. Per tali motivi andrebbe riproposta sul 
palcoscenico quest’opera di Bracco, nonché l’altro suo capolavoro, I 
pazzi, il cui testo appena uscito (1922) ricevette ben 200 recensioni e 
fu al centro di un’aspra polemica fra Adriano Tilgher e Lucio D’Ambra. 
Sarebbe la via principale per far conoscere un autore a lungo 
trascurato, a cui il regime fascista negò la possibilità di concorrere 
al premio Nobel, non appoggiando la sua candidatura, la quale era stata 
avanzata da un gruppo di intellettuali scandinavi, a riprova della stima
 e della fama di cui Roberto Bracco godeva in Europa». 
Come
 mai anche la sinistra napoletana (e italiana) non ha mai ripreso, sia 
pure in maniera interessata, la figura di Bracco quale paradigma di 
«militanza» antifascista?
«Innanzitutto vorrei ricordare sia il numero de L’Italia liberata
 (aprile 1944) - pubblicazione del Partito d’Azione interamente dedicata
 a Roberto Bracco - sia la commemorazione data alle stampe nel 1945 dal 
comunista nolano Vincenzo La Rocca, che nel 1947 terrà alla Camera dei 
deputati un’orazione sul drammaturgo napoletano. Tuttavia, è vero che la
 figura di Bracco non è stata valorizzata quale paradigma di ‘militanza’
 antifascista e questo perché non rientrava nei canoni - per così dire -
 classici dell’antifascismo clandestino di sinistra. Sul piano generale,
 non sono da sottovalutare il clima da guerra fredda e l’imperversare 
dell’anticomunismo che nel secondo dopoguerra hanno fortemente 
condizionato il radicarsi di una coscienza antifascista nel Mezzogiorno e
 le politiche della memoria. Comunque, sia pure in maniera 
intermittente, sono stati esponenti della sinistra cittadina o studiosi 
vicini ad essa a rievocare il percorso di un antifascista che, dopo 
essere stato oggetto della violenza squadristica - gli venne devastata 
la casa nel 1926 - e del controllo poliziesco della dittatura 
mussoliniana, è diventato idealmente a Napoli l’anello di congiunzione 
tra l’Italia del dissenso esplicito e l’Italia del dissenso carsico. Due
 componenti, due pezzi d’Italia che, insieme con quella delusa e 
duramente provata dalla guerra, hanno scritto la pagina resistenziale, 
che si è aperta proprio qui, a Napoli, con l’insurrezione delle Quattro 
Giornate».
Quanto
 sarebbe utile la lezione di Bracco oggi sia in politica – terra di 
trasformisti – sia nel campo morale laddove l’etica pubblica è resa 
liquida, relativa, ambigua dal parlamentare scomposto su internet?
«Sicuramente
 controcorrente risulterebbe la sua ‘lezione’, e proprio per questo 
utilissima, anche se - temo - sarebbe poco ascoltata. Nell’Italia di 
oggi, dove il trasformismo e la corruzione sono fenomeni palesi e 
corposi, la sua dirittura morale, la sua coerenza intellettuale sono 
beni difficili da trovare. Questo vale anche per l’Italia dell’epoca 
fascista. Mentre Roberto Bracco veniva oscurato, non pochi gerarchi del 
regime - tra cui Farinacci - accumulavano ingenti patrimoni, e numerosi 
intellettuali, dopo aver talvolta compiuto veri e propri voltafaccia, si
 mostravano inclini al più bieco opportunismo e servilismo». 
Bracco si distinse da altri intellettuali italiani in modo evidente.
«Un
 altro insegnamento o monito ci viene dalla sua figura: il dovere - in 
un certo senso - per l’intellettuale, per l’artista di non rincorrere le
 mode, di non inseguire il successo per il successo, ma di farsi 
interprete del suo tempo, di fornire, con gli strumenti che gli sono 
propri, chiavi di lettura per comprendere, per decifrare il presente 
nelle sue dimensioni e implicazioni, assumendo - se è il caso, se le 
circostanze lo impongono - posizioni non dettate da tornaconto 
personale, ma dai principi e ideali in cui ci si riconosce. Bracco l’ha 
fatto in tre momenti cruciali per la storia italiana ed europea, 
manifestando la sua disapprovazione per l’ingresso dell’Italia nella 
prima guerra mondiale; firmando nel 1919 - insieme con Croce, Einstein, 
Russell, Barbusse, Zweig e altri - la Déclaration di Romain Rolland per 
l’autonomia degli intellettuali dal potere politico; schierandosi nel 
1924 contro il fascismo al fianco di Giovanni Amendola». 

 
    
