Anche la riforma del lavoro è finita nel carretto dei gelati di Palazzo Chigi. Grandi promesse, mirabolanti annunci di una nuova era libera dalla precarietà, poi tutto è rimasto (per ora) nel freezer, mentre campagne di stampa costruiscono un nuovo senso comune in cui i diritti sono un impiccio, preparano il «modello spagnolo» e inducono la certezza che l’Ue voglia libertà di licenziare in Italia. Dicono che questa è la via per uscire dalla crisi, che appena liberati dell’impiccio dello Statuto fioccheranno i posti di lavoro, che la fine del contratto nazionale premierà i più bravi. Dicono.
Nella mia esperienza nel mondo del lavoro ho visto spesso lavoratori presentarsi con le dimissioni all’ufficio del personale delle proprie aziende e uscirne non con l’addio ma con un aumento di salario, un passaggio di categoria o un posto di lavoro migliore. Erano operai di mestiere o tecnici specializzati e utilizzavano la loro professionalità e la loro esperienza come arma di potere e di contrattazione. Le imprese accettavano questi «rilanci» per non perdere la qualità del lavoro. Il lavoro di qualità richiede relazioni fondate sul rispetto e sulle regole. E non è un caso che la crescita della qualità e del contenuto tecnologico di molti prodotti italiani sia andato di pari passo con l’espansione dei diritti e della democratizzazione dei rapporti sociali.
Anche nel lavoro ripetitivo e povero, come è quello di una catena di montaggio, dove ogni pochi secondi o minuti si deve ripetere la stessa operazione, esiste un accumulo di esperienza che in termini di velocità, destrezza e capacità di recupero dei molti errori di progettazione che si scaricano sui lavoratori garantisce alte produttività alle imprese. Analogo ragionamento si può fare per le prestazioni di sorveglianza e controllo all’attività delle macchine. Di questa complessità di relazioni sociali che fondano la produzione di valore in una impresa non c’è traccia né nei ragionamenti del premier e dei suoi ministri, né negli esegeti della cancellazione di ciò che resta dell’art. 18.
Ho una strana impressione che accomuna gli ultimi premier che hanno abitato Palazzo Chigi (e anche l’ultimo): sembrano non conoscere il lavoro visto dalla parte di chi lavora. L’idea che si possa licenziare con un cenno mettendo sul tavolo un po’ di indennizzo, oltre a soddisfare il narcisismo accademico di qualche tecnico, dice che si pensa a imprese povere con prodotti fragili, con qualità e contenuti tecnologici irrilevanti destinate a ristrutturazioni continue.
Si inseguono le richieste di una Confindustria che non sa andare oltre la svalutazione del lavoro non potendo più godere della svalutazione della moneta. Renzi accenna (lodevolmente, in questo caso) a investitori esteri che dovrebbero sostituire i «salotti buoni» dell’imprenditoria nostrana. Questi salotti — che un tempo avevano l’ambizione di essere il cuore delle elités — ci paiono oggi in disarmo, e vedono i loro sofisticati frequentatori da tempo ben rifugiati nelle nomine delle imprese a partecipazione pubblica e nelle privatizzazioni senza mercato. Anche il governo Renzi — forse dimenticando gli annunci di rottamazione — ha garantito la continuità di questa prassi: basti pensare, tra gli altri, ai casi Marcegaglia e Todini.
La politica industriale non si fa con i tweet: sarebbe importante conoscere i nomi e le intenzioni di questi nuovi investitori per il nostro paese e le ricadute occupazionali da Terni a Taranto, dal Sulcis a Marghera, da Termini Imerese a Valle Ufita. Peccato che per ora Renzi non sembri preoccuparsi troppo degli investimenti delle imprese e dei loro manager ex italiani, penso a quelli che in questi mesi sono diventati «apolidi», con il cda e le tasse all’estero. Magari come la Fiat Chrysler che continua ad utilizzare la cassa integrazione di quelle lavoratrici e di quei lavoratori italiani che ha garantito a Marchionne un risparmio di quasi 2 miliardi di euro lordi (1,7 netti) dal 2004 al 2014 (come ha dimostrato in un articolo mai smentito Andrea Mallan sul Sole24Ore).
È un risparmio che oggi si implementa con l’ulteriore anno di cassa integrazione annunciato per Mirafiori, uno stabilimento — cioè — che avrebbe dovuto rientrare al lavoro, dopo il referendum non libero del 2011, con i nuovi prodotti alla fine del 2012.
Ve lo ricordate? Se vince la Fiom sarà una catastrofe, se vince il sì lavoro per tutti: beh, quella promessa è disattesa da ormai quattro anni. Sono stati 30.000 i lavoratori interessati alla cig dal 2004 ad oggi (su 86.200). Non male per un manager «nuovo».
Quei lavoratori, caro primo ministro, meriterebbero una schiena più dritta con l’ Amministratore delegato dei due mondi e con le imprese italiane e straniere, più investimenti veri e subito! Non fra anni. Quei lavoratori meritano un «piano per il lavoro»: azzeramento dei contratti precari e un contratto di stabilizzazione vero dopo una prova congrua e tutele soggettive, a partire dall’art. 18, che garantiscano a tutti i lavoratori rispetto e relazioni sociali, stimolando innovazione e qualità capace di aumentare il valore del lavoro e dell’impresa.
E se proprio vuole contribuire al rinnovamento del sindacato, Renzi conceda ai lavoratori il diritto alle loro «primarie»: la possibilità di scegliersi i rappresentanti varando una legge sulla rappresentanza.