Caro Renzi, serve un piano per il lavoro

di Giorgio Airaudo - Il Manifesto - 05/09/2014

Anche la riforma del lavoro è finita nel car­retto dei gelati di Palazzo Chigi. Grandi pro­messe, mira­bo­lanti annunci di una nuova era libera dalla pre­ca­rietà, poi tutto è rima­sto (per ora) nel free­zer, men­tre cam­pa­gne di stampa costrui­scono un nuovo senso comune in cui i diritti sono un impic­cio, pre­pa­rano il «modello spa­gnolo» e indu­cono la cer­tezza che l’Ue voglia libertà di licen­ziare in Ita­lia. Dicono che que­sta è la via per uscire dalla crisi, che appena libe­rati dell’impiccio dello Sta­tuto fioc­che­ranno i posti di lavoro, che la fine del con­tratto nazio­nale pre­mierà i più bravi. Dicono.

 

Nella mia espe­rienza nel mondo del lavoro ho visto spesso lavo­ra­tori pre­sen­tarsi con le dimis­sioni all’ufficio del per­so­nale delle pro­prie aziende e uscirne non con l’addio ma con un aumento di sala­rio, un pas­sag­gio di cate­go­ria o un posto di lavoro migliore. Erano ope­rai di mestiere o tec­nici spe­cia­liz­zati e uti­liz­za­vano la loro pro­fes­sio­na­lità e la loro espe­rienza come arma di potere e di con­trat­ta­zione. Le imprese accet­ta­vano que­sti «rilanci» per non per­dere la qua­lità del lavoro. Il lavoro di qua­lità richiede rela­zioni fon­date sul rispetto e sulle regole. E non è un caso che la cre­scita della qua­lità e del con­te­nuto tec­no­lo­gico di molti pro­dotti ita­liani sia andato di pari passo con l’espansione dei diritti e della demo­cra­tiz­za­zione dei rap­porti sociali.

 

Anche nel lavoro ripe­ti­tivo e povero, come è quello di una catena di mon­tag­gio, dove ogni pochi secondi o minuti si deve ripe­tere la stessa ope­ra­zione, esi­ste un accu­mulo di espe­rienza che in ter­mini di velo­cità, destrezza e capa­cità di recu­pero dei molti errori di pro­get­ta­zione che si sca­ri­cano sui lavo­ra­tori garan­ti­sce alte pro­dut­ti­vità alle imprese. Ana­logo ragio­na­mento si può fare per le pre­sta­zioni di sor­ve­glianza e con­trollo all’attività delle mac­chine. Di que­sta com­ples­sità di rela­zioni sociali che fon­dano la pro­du­zione di valore in una impresa non c’è trac­cia né nei ragio­na­menti del pre­mier e dei suoi mini­stri, né negli ese­geti della can­cel­la­zione di ciò che resta dell’art. 18.

 

Ho una strana impres­sione che acco­muna gli ultimi pre­mier che hanno abi­tato Palazzo Chigi (e anche l’ultimo): sem­brano non cono­scere il lavoro visto dalla parte di chi lavora. L’idea che si possa licen­ziare con un cenno met­tendo sul tavolo un po’ di inden­nizzo, oltre a sod­di­sfare il nar­ci­si­smo acca­de­mico di qual­che tec­nico, dice che si pensa a imprese povere con pro­dotti fra­gili, con qua­lità e con­te­nuti tec­no­lo­gici irri­le­vanti desti­nate a ristrut­tu­ra­zioni continue.

 

Si inse­guono le richie­ste di una Con­fin­du­stria che non sa andare oltre la sva­lu­ta­zione del lavoro non potendo più godere della sva­lu­ta­zione della moneta. Renzi accenna (lode­vol­mente, in que­sto caso) a inve­sti­tori esteri che dovreb­bero sosti­tuire i «salotti buoni» dell’imprenditoria nostrana. Que­sti salotti — che un tempo ave­vano l’ambizione di essere il cuore delle eli­tés — ci paiono oggi in disarmo, e vedono i loro sofi­sti­cati fre­quen­ta­tori da tempo ben rifu­giati nelle nomine delle imprese a par­te­ci­pa­zione pub­blica e nelle pri­va­tiz­za­zioni senza mer­cato. Anche il governo Renzi — forse dimen­ti­cando gli annunci di rot­ta­ma­zione — ha garan­tito la con­ti­nuità di que­sta prassi: basti pen­sare, tra gli altri, ai casi Mar­ce­ga­glia e Todini.

 

La poli­tica indu­striale non si fa con i tweet: sarebbe impor­tante cono­scere i nomi e le inten­zioni di que­sti nuovi inve­sti­tori per il nostro paese e le rica­dute occu­pa­zio­nali da Terni a Taranto, dal Sul­cis a Mar­ghera, da Ter­mini Ime­rese a Valle Ufita. Pec­cato che per ora Renzi non sem­bri pre­oc­cu­parsi troppo degli inve­sti­menti delle imprese e dei loro mana­ger ex ita­liani, penso a quelli che in que­sti mesi sono diven­tati «apo­lidi», con il cda e le tasse all’estero. Magari come la Fiat Chry­sler che con­ti­nua ad uti­liz­zare la cassa inte­gra­zione di quelle lavo­ra­trici e di quei lavo­ra­tori ita­liani che ha garan­tito a Mar­chionne un rispar­mio di quasi 2 miliardi di euro lordi (1,7 netti) dal 2004 al 2014 (come ha dimo­strato in un arti­colo mai smen­tito Andrea Mal­lan sul Sole24Ore).

 

È un rispar­mio che oggi si imple­menta con l’ulteriore anno di cassa inte­gra­zione annun­ciato per Mira­fiori, uno sta­bi­li­mento — cioè — che avrebbe dovuto rien­trare al lavoro, dopo il refe­ren­dum non libero del 2011, con i nuovi pro­dotti alla fine del 2012.

 

Ve lo ricor­date? Se vince la Fiom sarà una cata­strofe, se vince il sì lavoro per tutti: beh, quella pro­messa è disat­tesa da ormai quat­tro anni. Sono stati 30.000 i lavo­ra­tori inte­res­sati alla cig dal 2004 ad oggi (su 86.200). Non male per un mana­ger «nuovo».

 

Quei lavo­ra­tori, caro primo mini­stro, meri­te­reb­bero una schiena più dritta con l’ Ammi­ni­stra­tore dele­gato dei due mondi e con le imprese ita­liane e stra­niere, più inve­sti­menti veri e subito! Non fra anni. Quei lavo­ra­tori meri­tano un «piano per il lavoro»: azze­ra­mento dei con­tratti pre­cari e un con­tratto di sta­bi­liz­za­zione vero dopo una prova con­grua e tutele sog­get­tive, a par­tire dall’art. 18, che garan­ti­scano a tutti i lavo­ra­tori rispetto e rela­zioni sociali, sti­mo­lando inno­va­zione e qua­lità capace di aumen­tare il valore del lavoro e dell’impresa.

 

E se pro­prio vuole con­tri­buire al rin­no­va­mento del sin­da­cato, Renzi con­ceda ai lavo­ra­tori il diritto alle loro «pri­ma­rie»: la pos­si­bi­lità di sce­gliersi i rap­pre­sen­tanti varando una legge sulla rappresentanza.

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