Lo scorso 26 giugno, Matteo Salvini ha incontrato a Tripoli le autorità libiche per affrontare il problema dei flussi migratori. Ha chiesto inoltre di visitare un centro di accoglienza, definito "all'avanguardia" che potrà ospitare mille persone. E ha dichiarato: "Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani".
Il ministro ha così scientemente ignorato che: il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, pesa poco e gestisce solo segmenti di territorio; nel paese agiscono varie milizie, alcune disposte a contrattare con Tripoli, altre fuori controllo; c'è un secondo governo a Tobruk, in Cirenaica, gestito dal generale Haftar; il paese è tutt'altro che sicuro e riconciliato.
Salvini inoltre si fa beffa dei rapporti di Amnesty International e delle dichiarazioni dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni che affermano che in Libia i diritti umani non contano nulla. E naturalmente il ministro non presta ascolto ai racconti di chi, ora in Italia, è stato detenuto in uno dei centri libici.
In questi mesi, sono rimasto molto perplesso e amareggiato per il silenzio della società civile, e in particolare della Chiesa, di fronte a quello che stava e sta avvenendo con il governo uscito dalle urne del 4 marzo. Anche perché nel solo mese di giugno abbiamo avuto 600 morti nel Mediterraneo. E ciò a causa della "guerra" che il ministro dell'interno Salvini ha dichiarato alle organizzazioni non governative (Ong) e degli ordini di chiudere i porti. Senza dire delle minacce di attuare espulsioni di massa dei migranti senza documenti e di usare i bulldozer per sgomberare i campi nomadi.
Sono rimasto impressionato e spaventato dal linguaggio razzista della politica e dalle parole usate anche dalla gente comune. Spaventato, ma non sorpreso. Inutile nascondersi infatti che le scelte e le dichiarazioni di Salvini hanno l'adesione di una parte consistente dell'opinione pubblica. Del resto, lo stesso sta avvenendo negli Stati Uniti con la presidenza Trump.
Davanti a questa situazione, che mette in pericolo i fondamenti stessi della nostra democrazia, ho pensato che fosse necessario reagire. Anche con gesti simbolici. Così il 10 luglio siamo partiti con un digiuno a staffetta. Poche persone: monsignor Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, don Alessandro Santoro a nome della comunità delle Piagge-Firenze, padre Giorgio Ghezzi, suor Rita Giaretta, il gruppo Agesci di Caserta e qualche altro.
Per lanciare e rendere pubblico questo digiuno, abbiamo attuato un presidio davanti a Montecitorio fino a fine luglio (presidio sospeso in agosto perché il parlamento è chiuso, e ripreso in settembre). Un'esperienza per me molto forte. Anche per le numerose adesioni arrivate: molte dal campo civile, ma anche sul versante ecclesiale hanno aderito singoli, conventi e comunità religiose. Il digiuno, strumento nonviolento, è una pratica che trova un consenso trasversale nella società.
Due fatti ci hanno sostenuto. L'eucaristia celebrata il 21 luglio nella Cappella ungherese delle grotte vaticane, dove abbiamo espresso il nostro grazie a papa Francesco per il suo magistero sui migranti. E poi la dura e ferma presa di posizione della Conferenza episcopale italiana, che ha preso spunto dal volto di Josefa, salvata dopo essere rimasta aggrappata per due giorni a un relitto: "La via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall'imbarbarimento passa dall'impegno a custodire la vita. Ogni vita".
Abbiamo dunque deciso di proseguire con il digiuno a staffetta anche in questo mese di settembre e di continuare a raccogliere le adesioni che possono essere inviate a questo indirizzo email: digiunodigiustizia@hotmail.com.
È il modo che abbiamo scelto per porre domande alla società italiana. Ma quella del digiuno dev'essere una delle tante forme di mobilitazione che possono interagire e crescere. Sono convinto che, pian piano e dal basso, la società civile troverà tante modalità nonviolente per dire a questo governo: "Non ne possiamo più!". Vorremmo inoltre che parrocchie, case religiose ed enti riconosciuti si dichiarino (come già avviene negli Usa) Sanctuary movement, cioè luoghi dove chi è espulso dall'Italia e rischia la vita nel suo paese di origine possa trovare rifugio.