«Con Il Jobs Act è crollata la giustizia del lavoro, ma grazie ai tre referendum della Cgil abbiamo una straordinaria occasione di riscatto. E ce l’hanno in special modo tutte quelle persone che sono state assunte con il contratto a tutele crescenti: perché si tornerà all’articolo 18 originario, quello puro ante-Fornero, e varrà per tutti. Anche per loro». Il giuslavorista Nanni Alleva traccia un bilancio delle riforme renziane e indica il possibile destino dei voucher e della tutela contro i licenziamenti alla luce della prossima consultazione popolare. Smontando le ragioni di chi ritiene che la Consulta potrà bocciare i quesiti.
Che bilancio possiamo tracciare del Jobs Act a quasi due anni dalla sua approvazione?
Il Jobs Act è un’impresa malvagia ben organizzata, un po’ come le crociate viste dalla parte degli arabi. Una distruzione sistematica del diritto del lavoro, di cui però apprezzo un solo aspetto, metodologico: ha dato luogo a un testo unico, per cui bastano poche operazioni chirurgiche di emendamento per cambiare completamente di segno. Io li chiamo i 24 “trapianti di cuore” ai 24 istituti principali, e hai tutto un altro contesto del diritto: un’impresa non impossibile dopo il bel risultato del 4 dicembre. Ma bisogna conoscere soprattutto il danno che ha fatto, direi su tre aspetti principali.
Cominciamo dal primo.
Sono state abbattute le certezze e le garanzie del rapporto individuale, perché il nuovo contratto a tempo indeterminato non ha più l’articolo 18. Inoltre, questo rapporto è stato affiancato ad altri due, concorrenti al ribasso: i voucher e i contratti a termine acausali. E’ chiaro che finita la sbornia delle tutele crescenti – come già in parte abbiamo visto, dato che sono diminuiti gli incentivi – gli imprenditori si butteranno sui voucher e sui tempi determinati, perché convengono di più. Il secondo problema riguarda gli ammortizzatori sociali.
Coprono molto meno rispetto al passato.
Sì, il Jobs Act ha messo fine alle tutele collettive che conoscevamo, sostituendole con forme molto più deboli: addio cassa in deroga e indennità di mobilità, le 200 mila famiglie che ne godono ancora oggi presto finiranno alla fame. Quello che c’è attualmente, la Naspi, è più simile a un istituto assicurativo che a un meccanismo di sicurezza sociale, perché è proporzionale ai contributi versati: quindi i lavoratori precari e discontinui sono penalizzati.
Almaviva ha realizzato uno dei più grandi licenziamenti di massa della storia italiana: che soluzioni alternative si potevano proporre?
Il caso Almaviva parla soprattutto del nodo della delocalizzazione. La politica avrebbe dovuto agire come si fece ai tempi del contrasto ai “contratti pirata”: si aumentarono i contributi sociali a carico dell’azienda, concedendo però forti sconti solo a chi avesse firmato con le organizzazioni sindacali più rappresentative. Lo stesso meccanismo punitivo/premiale si potrebbe applicare a chi sceglie di non delocalizzare.
Tornando al Jobs Act, qual è il terzo danno da segnalare?
La spinta alla contrattazione aziendale, ottenuta anche con forme mirate di defiscalizzazione e l’applicazione dell’Articolo 8 voluto da Sacconi, a danno del contratto nazionale. Ricordo poi che i famosi incentivi alle tutele crescenti – 24 mila euro in un triennio per chi assumeva nel 2015 – sono stati dati per sanare contratti a progetto o a termine di fatto illegittimi. Invece di multare quelle aziende, le si è premiate.
Ora ci si è messa anche la Cassazione: sarebbe legittimo licenziare per sostenere il profitto dell’impresa.
I lavoratori non hanno più quasi tutele, e le poche che hanno non le rivendicano per paura di venire licenziati. Il Jobs Act ha distrutto la giustizia del lavoro, ma ha anche orientato tante sentenze a favore delle imprese. La Cassazione è direi contraddittoria: se è legittimo licenziare per dare lavori all’esterno o ai dipendenti superstiti, perché allora non autorizzi la sostituzione del lavoratore più anziano e costoso con uno più giovane e retribuito meno? So che molti giudici di Cassazione ritengono di dover reagire a questa sentenza, e in effetti la stagione mi pare quella giusta: tra il 4 dicembre e i referendum della Cgil possiamo puntare a riconquistare alcuni diritti persi, se il mondo del lavoro saprà mettere a frutto le proprie risorse.
Ma alcuni analisti sostengono che l’11 Gennaio la Consulta boccerà almeno un quesito, quello sull’articolo 18.
Adducono ragioni che rappresentano delle vere e proprie stupidaggini, sia sul piano storico che giuridico. Sul piano storico ricordo la sentenza 41/2003 della Consulta che ritenne nel 2003 ammissibile il referendum proposto da Rifondazione comunista sull’articolo 18. E in quel caso anzi si abrogava di più, perché si toglieva qualsiasi soglia all’applicazione della reintegra: quella dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali e quella dei 5 per quelle agricole. Nel caso del referendum Cgil se ne toglie solo una e si unifica la soglia a 5 dipendenti. Sul piano giuridico, dicono che il quesito non è solo abrogativo ma è anche propositivo, perché si darebbe luogo a una tutela mai esistita in Italia, appunto quella sopra i 5 dipendenti. Ma spiego a questi commentatori che sempre, quando togli un limite, abrogandolo, ottieni un effetto: questo non vuol dire che stai introducendo una nuova legge. Faccio un esempio: se due campi sono divisi da alcuni paletti, nel caso in cui io chieda per referendum di togliere i paletti, otterrò alla fine un unico campo. Ma senza aver mai fatto una nuova legge: è bastato togliere i paletti e ho avuto il campo intero.
Questi commentatori devono studiare di più. Peraltro l’articolo 18 tornerà quello originario? Anche ante-Fornero?
Sì, e sarà così per tutti. Pensiamo alla enorme occasione di rivalsa per tutte quelle persone che sono state assunte con le tutele crescenti, i cosiddetti “precari istituzionalizzati”. Con un voto potranno regalare anche a sé stessi l’articolo 18.
E sui voucher? Il governo Gentiloni riuscirà a fare una legge per evitare di arrivare al voto?
La modifica dell’attuale normativa dovrebbe essere molto profonda. Il voucher evita l’instaurazione di un rapporto di lavoro, portando tutte le prestazioni a singoli rapporti una tantum. E’ quindi di per sé una enorme fonte di abusi. E’ come il part time: ti segno tre ore, poi in realtà ne fai sette. Allora non credo basti introdurre multe o aumentare le ispezioni: la stessa tracciabilità introdotta da Poletti, la comunicazione all’Inps fatta un’ora prima, forse dà luogo a una ispezione nelle ore successive? Sono correzioni farlocche, a Roma dicono efficacemente “fregnacce”.
Insomma, tra referendum Cgil ed eventuali emendamenti chirurgici al Jobs Act, se lo volessimo, potremmo davvero ribaltare la situazione a favore di chi lavora.
Sì, certo, e aggiungo un nodo che viene toccato poco ma che ritengo altrettanto importante. I contratti a termine acausali, quelli introdotti dal ministro Poletti nella prima fase del Jobs Act. Violano l’articolo 30 della Carta di Nizza, che ricordo, in forza del Trattato di Lisbona, è diventata norma europea di primo livello. L’articolo 30 dice che il lavoratore deve avere sempre il diritto di poter sindacare il licenziamento. Ma nel contratto a termine, si obietterà, non si deve motivare il licenziamento come si fa con il tempo indeterminato, perché di fatto si estingue con la data di scadenza. Bene, ma allora devi chiarire al momento dell’assunzione il motivo per cui stai attivando quel contratto, altrimenti il lavoratore non avrà mai la possibilità di sindacare il rapporto che ha avuto con la sua impresa. In Francia la causale c’è in tutti i contratti, come era da noi prima del Jobs Act, in Germania puoi stipulare solo il primo contratto in forma acausale, e i successivi dovranno avere necessariamente una causale. Speriamo di poter tornare alle stesse condizioni anche in Italia, impegniamoci anche su questo fronte.