1. «Un altro giorno di morte in America. 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzi» è il titolo del libro che Gary Younge, corrispondente del The Guardian negli USA, ha dedicato a un giorno come gli altri negli Stati Uniti.
La data è quella del 23 novembre 2013, una giornata uggiosa nella quale «Fox News era stato il canale di notizie via cavo più seguito, Hunger Games: la ragazza di fuoco aveva realizzato il record di incassi al botteghino e la partita universitaria di football tra Baylor e Oklahoma State aveva registrato il picco di ascolti in TV. Insomma, un giorno come un altro negli Stati Uniti e, come di consueto in un normalissimo sabato americano, dieci bambini e adolescenti venivano uccisi da un’arma da fuoco».
Come spiega l’autore, «la data in sé – il 23 novembre – è arbitraria. Ed è questo il punto: sarebbe potuto essere un giorno qualsiasi», perché ogni giorno, in media, negli Stati Uniti, sette adolescenti perdono la vita a causa di un colpo di arma da fuoco.
Fatto normale – un normalissimo sabato americano – in un Paese che ha il tasso di armi da fuoco pro capite più alto del mondo e nel quale la società è resa «letale dalla diffusione delle armi».
È uno scenario luttuoso, distante da quello che viviamo noi europei, ma che è bene tenere a mente, senza timori di apparire allarmisti, nel momento in cui il Senato ha approvato in via definitiva la nuova formulazione della legittima difesa. Quella in base alla quale «sussiste sempre il rapporto di proporzione» tra difesa e offesa se, in caso di violazione di domicilio, si usa un’arma legittimamente detenuta per difendere non soltanto la propria o l’altrui incolumità, ma anche i beni propri o altrui; quella secondo la quale «agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone».
Sono quegli avverbi di tempo, quei sempre solennemente ripetuti nel testo, a stravolgere in modo significativo (del resto, gli avverbi sono modificatori semantici) il profilo della legittima difesa, o, meglio, a pilotare la nuova disciplina della scriminante fuori dal perimetro di un’interpretazione costituzionalmente doverosa.
È una legge ispirata allo slogan della “difesa sempre legittima” e traduce, alle nostre latitudini, la Castle doctrine recepita dalla legislazione di molti Stati americani: il proprietario di casa è il re del proprio castello, libero di usare le armi verso chiunque vi faccia ingresso contro la volontà «se ciò appare come una difesa ragionevole».
2. Sono stati spesi, qui (si vedano gli articoli di Silvia Manderino, Elisabetta Grande, Livio Pepino, Domenico Gallo), tutti gli argomenti tecnico-giuridici, morali e politici per evidenziare i pericoli di questo disegno di legge. A poche ore dalla sua approvazione intendiamo tornare a mettere a fuoco alcune questioni che riteniamo rilevanti.
In uno Stato democratico come il nostro, che fa della Costituzione repubblicana la propria stella polare, la tutela della sicurezza dei cittadini dovrebbe essere affidata, in primo luogo, alle agenzie di polizia, uniche delegate a gestire il monopolio della forza. Uno Stato vicino ai problemi delle donne e degli uomini, al tanto esaltato (e ingannato) popolo, rafforza le agenzie di polizia, le implementa di risorse personali e patrimoniali ed evita accuratamente di lasciar passare il messaggio che la sicurezza di ciascuno è affidata alla canna di una pistola. Perché un tale messaggio, sotteso alla nuova disciplina della “difesa sempre legittima” e alla campagna mediatica che ne ha accompagnato il varo, oltre a palesare il ritiro dello Stato da un territorio di importanza strategica, crea pericoli gravi.
Far intendere che all’interno della propria casa ci si possa difendere e si possa far fuoco contro eventuali aggressori senza dover essere sottoposti a un giudizio che verifichi i presupposti della difesa legittima, fa correre rischi in primo luogo alle stesse vittime delle aggressioni nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro. Con tale politica, infatti, i comportamenti criminosi non si prevengono; in compenso, chi delinque sarà indotto a correre meno rischi e, a sua volta, ad armarsi e a far fuoco.
Le cronache americane sono lì a ricordarcelo. Un esempio dell’inefficacia di tali opzioni risuona nel racconto di Giorgio Beretta, impegnato nella Rete italiana per il disarmo e analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere: «Qualche settimana fa sono stato intervistato da una TV americana, la CBS News. Spenti i microfoni, l’intervistatore mi ha chiesto se sapevo il numero di omicidi per furti e rapine in Italia nell’ultimo anno. Citandogli i dati ufficiali dell’ISTAT, gli ho risposto: «Sedici». Mi ha guardato sbalordito e mi ha chiesto di ripeterlo. «Yes, sixteen», gli ho replicato. «Ma è il numero di omicidi che si verificano in una settimana a Chicago!», mi ha risposto».
3. Il dramma di un effetto controproducente sul piano della tutela della sicurezza, dunque, è più che un’ipotesi astratta. A questo risultato, in stridente contrasto con le premesse securitarie della legge, se ne possono aggiungere altri, altrettanto allarmanti. Come detto, la nuova disciplina in tema di legittima difesa e le dichiarazioni pubbliche dei suoi promotori fanno affiorare un invito, più che simbolico, ad affidarsi all’uso delle armi.
A questo proposito è bene ricordare che, di pari passo alle nuove disposizioni sulla legittima difesa, è stato approvato il decreto legislativo 10 agosto 2018 n. 104, di attuazione della direttiva (UE) 2017/853 del Parlamento e del Consiglio, del 17 maggio 2017, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione delle armi.
Cosa stabilisce questo decreto, che recepisce con sorprendente rapidità e a maglie larghe una direttiva sulla quale altri Paesi europei si sono mostrati più prudenti? L’elenco delle prescrizioni è significativo: aumento delle armi sportive detenibili da 6 a 12; aumento dei colpi consentiti nei caricatori da 15 a 20 per le armi corte e da 5 a 10 per quelle lunghe; possibilità dei “tiratori sportivi” di detenere armi di derivazioni militare (l’Ar15 delle stragi nelle scuole americane, ad esempio, è tra queste); invio della denuncia ai Carabinieri e alla Questura tramite mail certificata; eliminazione dell’obbligo – presente nella bozza di decreto – di avvisare i conviventi maggiorenni circa il possesso di armi. Al di là della riduzione da sei a cinque anni della validità del porto d’armi per caccia e tiro sportivo, il decreto ha scelto – non si trattava di obblighi imposti dalla direttiva – di ampliare la platea dei detentori delle armi demilitarizzate, di allargare il numero delle armi e delle munizioni detenibili, di non porre obblighi di comunicazione ai conviventi.
Due normative, questa sul controllo dell’acquisizione e detenzione di armi e quella sopra citata sulla legittima difesa, che inducono i tecnici a formulare prognosi ragionevolmente attendibili sul proliferare della circolazione di armi nel nostro Paese.
È un obiettivo seriamente auspicabile? Non crediamo. La parabola dell’aumento delle armi, pur legittimamente detenute, insegna che prima o poi queste vengono usate e non necessariamente contro un rapinatore o un ladro, ma anche contro il coniuge, il figlio, il genitore, il vicino di casa. Se è vero che la cifra del crimine a cui occorre prestare attenzione, in chiave preventiva, è quella relativa ai delitti in ambiente domestico, l’aumento del volume di armi in circolazione non può essere visto come un segnale positivo.
4. La lista degli effetti deleteri del nuovo complesso di norme non si ferma qui. È evidente, per entrare nel campo di un ragionamento tecnico-giuridico, che la nuova formulazione delle disposizioni in materia di legittima difesa è stata pensata e scritta avendo di mira un avversario: la discrezionalità dell’autorità giudiziaria.
Le presunzioni di proporzionalità e di legittimità introdotte dalla riforma – sottolineate dall’avverbio sempre – hanno il dichiarato intento di sottrarre alla magistratura il giudizio di bilanciamento tra difesa e offesa e tra beni, valori e interessi in conflitto. Con un obiettivo, esplicitamente dichiarato nelle relazioni di accompagnamento e costituzionalmente impossibile: impedire la sottoposizione a giudizio di chi spara per difendersi. Come se, una volta verificata l’intrusione nell’abitazione, fosse indifferente verificare, in concreto, se l’intruso fosse effettivamente un ladro o un rapinatore, se avesse posto in essere condotte violente, se fosse in fuga o nel pieno della dinamica aggressiva, se la reazione difensiva fosse proporzionata all’entità dell’attacco e alla tipologia e gerarchia dei diritti aggrediti.
Eppure, la discrezionalità dell’autorità giudiziaria non ha dato una cattiva prova di sé in materia di legittima difesa, a dispetto della vulgata che viene veicolata nell’opinione pubblica.
Per dare conto di questa conclusione è sufficiente prendere un precedente lontano nel tempo e uno temporalmente prossimo.
Partiamo dalla vicenda storicamente più vicina. Una sentenza del GUP presso il Tribunale di Piacenza, in data 27 aprile 2015, condanna un imprenditore e un suo dipendente alla pena rispettivamente di anni quattro e mesi sei di reclusione e anni quattro e mesi due di reclusione per il reato di tentato omicidio in danno di cittadino della Romania che, insieme ad altri complici, aveva tentato di sottrarre del gasolio da un escavatore parcheggiato lungo il greto di un fiume (vedi: Francesca Paruzzo, Giustizia e giustizieri). Non appena divenuta irrevocabile la sentenza, il Ministro dell’interno si è recato in carcere a trovare il condannato, eleggendolo così a simbolo delle vittime di una discrezionalità giudiziaria che trasforma la persona offesa in carnefice.
Eppure, a leggere la sentenza, emerge la seguente dinamica dei fatti: tre persone si recano sul greto del torrente Tidone per sottrarre gasolio da un escavatore di proprietà di un imprenditore che stava effettuando lavori sul letto del fiume; non appena inserito un tubo di gomma nel serbatoio dell’escavatore, si attiva un sistema di allarme del mezzo, collegato al telefono cellulare dell’imprenditore; quest’ultimo salta a bordo della propria vettura e, portando con sé un fucile a pompa, si reca sul posto, dove nel frattempo giungono anche il figlio e un altro dipendente; arrivato all’altezza del ponte sul torrente l’imprenditore scende dalla vettura, imbraccia il fucile e esplode colpi d’arma da fuoco verso la zona del fiume, mettendo in fuga i ladri e colpendo uno di essi all’altezza dell’epicondilo mediale destro. Non è finita: il dipendente dell’imprenditore intima l’alt a uno dei ladri in fuga, lo fa inginocchiare con le mani dietro la testa e lo colpisce con due colpi che lo fanno cadere supino a terra; in quel momento arriva l’imprenditore che, a circa un metro di distanza dal ladro ormai immobilizzato, gli esplode due colpi di fucile a pompa in direzione del torace.
Non vi è bisogno di troppa attenzione nella lettura della motivazione per rendersi conto di come un dibattito pubblico svincolato dal contenuto degli atti giudiziari possa indurre a confondere le acque e a “pensar male” della discrezionalità dei giudici nella valutazione dei casi concreti.
Giudici che, peraltro, non hanno mai tralasciato di porre la dovuta attenzione alla posizione, anche emotiva, della persona che subisce aggressioni in casa o nel luogo di lavoro. È il caso, per dimostrare questa attenzione, di tornare con la mente a quel precedente lontano di cui si è detto.
Siamo a Roma, il 18 gennaio 1977, verso le ore 19.30. Il calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, famoso come l’“angelo biondo”, entra in una gioielleria del quartiere Flaminio e, col bavero del cappotto alzato e le mani in tasca, simula per scherzo una rapina, pronunciando la frase di rito: «Fermi tutti, questa è una rapina!». Erano gli anni di piombo, però, e il titolare della gioielleria un anno prima aveva subìto una rapina vera. Vistosi in pericolo, estrae un revolver calibro 7,65 e spara un colpo al petto del giocatore della Lazio, uccidendolo. Verrà arrestato, ma il processo si concluderà con assoluzione «per aver agito in stato di legittima difesa putativa».
Si tratta di una vicenda che ha lasciato molte ombre, ma che qui è importante rievocare perché segna l’entrata sulla scena giudiziaria della legittima difesa putativa, simbolo dell’attenzione riservata dai giudici a chi reagisce a un pericolo che, seppur non esistente realmente, è supposto dall’agente sulla base di un errore scusabile nella rappresentazione dei fatti.
Insomma, come è stato scritto, la magistratura aveva a disposizione e ha utilizzato tutti gli strumenti, già con le norme del codice Rocco, «per mandare assolto un negoziante romano digiuno di calcio che si era sentito in pericolo per l’ingresso nella gioielleria di un calciatore famosissimo a Roma».
Siamo proprio sicuri che il controllo della magistratura su queste vicende sia da evitare come la peste in nome di uno slogan, la “difesa sempre legittima”, che sa di Far West? La norma è in corso di approvazione al Senato e non resta che affidarsi alle parole del celebre cantautore: «Lo scopriremo solo vivendo. Comunque adesso ho un po’ paura…».
*Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza a Sassari, è attualmente presidente di Magistratura democratica e componente del comitato di redazione della rivista Questione giustizia
Legittima difesa meno sicurezza per tutti