Lo “sciame” di attentati terroristici a Bruxelles è
la dimostrazione del fallimento dell'intelligence del Belgio ma anche
di quella dell'Europa, colpita e affondata nella capitale dell'Unione e
sede della Nato. Era assai prevedibile che i jihadisti europei
tentassero di vendicarsi e che altre cellule terroristiche fossero già
pronte a entrare in azione. Dopo tanti vertici in cui è discusso di
collaborazione tra i servizi europei la realtà tragicamente dimostra che
neppure belgi e francesi riescono a cooperare tra di loro.
Lo dimostra l'emblematica vicenda di Salah Abdeslam,
l'imprendibile terrorista e del suo gruppo di fuoco bloccati a due
passi dalla strada dove già mesi fa erano stati compiuti arresti e
perquisizioni: lui è sempre tornato, a Moleenbek, un quartiere che lo ha protetto come fosse un'impenetrabile roccaforte del jihadismo.
Salah
è rimasto tra noi per mesi, attraversando indisturbato le frontiere. Il
9 settembre 2015 viene fermato insieme a Mohammed Belkaid, in arrivo
dall'Ungheria, dai poliziotti austriaci, tetragoni architetti di
barriere anti-migranti, ma incapaci di fare un accertamento come si
deve: lo lasciano andare in compagnia di un altro candidato kamikaze.
L'Europa deve rendersi conto che il terrorismo vive tra noi, che
vittime e carnefici stanno gli uni accanto agli altri, che non si tratta
di episodi isolati, che hanno radici profonde tra le guerre
mediorientali e nei conflitti che percorrono lo stesso continente. Qui
in Europa la guerra all'Isis si fa un po' a spanne, in ordine sparso,
salvo poi comunicare di tanto in tanto che un drone o un raid aereo
hanno ucciso un leader del terrorismo in Siria oppure in Libia per dare
l'impressione confortante che la tecnologia occidentale è di una
spietata precisione. Niente di più falso. Cosa ci sia intorno, cosa si
muova davvero tra Raqqa e Mosul, dentro al Medio Oriente e verso
l'Europa rimane avvolto nel mistero e coglie impreparati gli apparati di
sicurezza.
Adesso si comincerà a dire che l'Europa è in guerra. Ma le potenze
europee sono già in guerra da anni, basti pensare a Afghanistan, Iraq,
Libia: anzi proprio ora servirà una seria riflessione su questi
conflitti e domandarsi se la famosa “guerra al terrorismo” lanciata
dagli americani dopo l'attacco di Al Qaeda l'11 settembre 2001, ci abbia
resi più o meno sicuri. La risposta è evidentemente negativa. Prima
c'era Al Qaeda, poi è si è formato l'Isis, forse tra un po' di tempo
avremo altre organizzazioni.
Ma l'anti-terrorismo, come hanno insegnato anche qui in Italia,
comincia prima della fine tragica, dell'esplosione dei kamikaze, inizia
con la prevenzione, con indagini discrete ma precise che a volte durano
anni, con l'attenzione costante e la conoscenza dei luoghi di
aggregazione, con gli informatori giusti, battendo le strade al confine
tra il mondo come appare e quello sommerso. È stato fatto questo? Sembra
di no.
La ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord. Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero.