È ferma in Parlamento la proposta di legge sul consumo di
suolo. Non ne siamo affatto dispiaciuti. Prima si mette una pietra su quel
documento meglio è. Abbiamo apprezzato a suo tempo l’impegno dell’allora
ministro per l’Agricoltura Mario Catania ad affrontare il tema con la volontà
di risolverlo, sebbene ne avessimo criticato fin da allora l’impostazione.
Abbiamo seguito e criticato via via le modifiche apportate e i cospicui
peggioramenti del testo iniziale, e abbiamo assistito infine al suo completo
stravolgimento: così evidente che il suo originario promotore ne ha preso
recentemente le distanze. (segue)
Quindici anni dopo
Come è noto ai frequentatori di eddyburg siamo stati i primi
a sollevare, nell’ormai lontano 2005, il problema del carattere, delle dimensioni,
della dinamica del consumo di suolo nel nostro paese e a indicare l’urgenza di
affrontare energicamente il fenomeno per arrestarlo.
Nella società, e in alcune, pochissime, amministrazioni
locali qualcosa si è mosso. “Stop al consumo di suolo” è diventato uno slogan
diffuso e ha prodotto la nascita di interessanti e positive iniziative di
massa, quali l’associazione e il forum promossi dal sindaco di Cassinetta di
Lugagnano, Domenico Finiguerra, di cui siamo stati partecipi. La maggior parte
dei comitati e dei gruppi di cittadinanza attiva impegnati nella difesa del
territorio, l’ambiente, il paesaggio hanno assunto il contrasto al consumo di
suolo tra i propri obiettivi.
Ma sul terreno della politique
polticienne e delle istituzioni nulla si è mosso. Nessun provvedimento
serio è stato preso a livello nazionale. A livello regionale una sola regione,
la Toscana, ha prodotto una legge esemplare, dovuta alla sapiente
determinazione dell’assessore Anna Marson e all’appoggio che per un lungo
periodo le ha dato il presidente Enrico Rossi. L’espressione “consumo di suolo”
ha continuato a girare nelle rotonde parole della politica e della cultura (sebbene
si sia passati dallo sbrigativo “stop al consumo di suolo” al più morbido e
ragionevole “contenimento del consumo di suolo”). Ma si è subito accompagnato a
un’altra espressione, “rigenerazione urbana”. Espressione di per sé non disdicevole
ma, come tutte le parole, suscettibile di interpretazioni diverse, e anzi
opposte. Oggi, nel contesto dell’attuale discorso sul “contenimento del consumo
di suolo”, è diventata la parola il cui significato concreto è “la nuova forma
della speculazione immobiliare”. Vogliamo annotare subito il poderoso
contributo che a questo rovesciamento di senso hanno dato l’accademia e la
cultura urbanistica “ufficiale” rappresentata dall’INU, da tempo diventato il
facilitatore delle fortune dei poteri immobiliari.
A che punto stanno le cose oggi?
Esiste
(ancora) la proposta ferma al Parlamento nazionale. Abbiamo già detto che la
sua definitiva sepoltura è del tutto auspicabile, poiché è una legge che, ove
fosse approvata, non darebbe nessun risultato positivo per quanto riguarda la
riduzione del consumo di suolo per le ragioni che sono state puntualmente
indicate su queste pagine negli articoli di Vezio De Lucia, di Cristina
Gibelli, di Ilaria Agostini. In una parola, essa prevede lo svolgersi di una
tale successione di atti e di una tale concatenazione di interventi delle diverse
figure istituzionali da richiedere tempi misurabili in anni se non in decenni
e, soprattutto, da consentire innumerevoli interruzioni del percorso stabilito.
Essa inoltre aprirebbe la strada a quella “rigenerazione urbana” speculativa cui
abbiamo accennato, e su cui torneremo. Ci confortano nella nostra posizione le
parole che ha recentemente espresso l’on. Mario Catania: «poi è entrata la parte
della rigenerazione urbana» ha detto l’ex ministro, «e se fosse approvato sarebbe
inefficace» (la Stampa, 5 dicembre2015).
La
buona legge
Esiste, come abbiamo ricordato, una legge della regione
Toscana, pienamente vigente. Essa ha superato un passaggio al vaglio della
Corte costituzionale, che l’ha ripulita di due discutibili norme inserite
nell’iter su richiesta dell’Anci, e per nulla incidenti sulla struttura della
legge. È una legge di cui abbiamo ampiamente illustrato la positività, che brevemente
riassumiamo. Sulla base di una precisa definizione dei termini impiegati (in
particolare la distinzione tra territori urbanizzati e territori rurali) la
legge prescrive che i piani comunali delineino nettamente il confine che separa
il territorio oggi urbanizzato da quello rurale. Ogni nuovo intervento di nuova
edificazione o di trasformazione urbanistica deve essere collocato all’interno
del territorio urbanizzato. Nel territorio rurale non sono mai consentite nuove
edificazioni residenziali; sono invece possibili limitate trasformazioni di
nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di
pianificazione di area vasta (alla quale partecipa la Regione, con diritto di
veto) cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi)
alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture
esistenti.
Naturalmente la legge definisce con precisione ciò che i
comuni possono autorizzare o non autorizzare fino all’approvazione di nuovi piani
conformi alle nuove prescrizioni regionali, nonché le regole da seguire nelle
trasformazioni delle aree già urbanizzate per evitarne il degrado ambientale o
sociale, per rispettare il rapporto tra aree edificate e aree libere, tra
volumi e spazi aperti, tra abitanti e spazi pubblici e usi pubblici e così via. Una
legge, insomma, che costituisce un piccolo
manuale della buona urbanistica; essa dovrebbe costituire un testo da
studiare
in tutte le sedi universitarie che si occupino di trasformazioni
del territorio, e siano davvero orientate alla formazione di tecnici
impegnati nella progettazione e realizzazione di un corretto uso del
suolo,
rurale ed urbanizzato, e non nella corruzione del mestiere di urbanista
in
quello di facilitatore delle attività immobiliari.
“Rigenerazione urbana” alla veneta
Esiste poi un progetto di legge della regione Veneto, che
illustra splendidamente che cosa si intenda in quella regione (e in tutto il
mondo politico e culturale che a quell’esempio si ispira) per “rigenerazione
urbana” e su cui vogliamo per questo soffermarci. E il progetto di legge n. 390
«Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo, la rigenerazione urbana
e il miglioramento della qualità insediativa», ed è firmata dal presidente
della Regione Zaia e da un plotone di suoi seguaci.
Cominciamo
col dire che il contenimento del consumo non c’è (come del resto non c’è il miglioramento della qualità urbana.
Si dichiara, è vero, di assumere l’obiettivo di «evitare il consumo di suolo
non urbanizzato» e quello di «invertire il processo di urbanizzazione del
territorio», ma si esenta da questo “vincolo” una serie di tipologie di aree,
pubbliche o private, «finalizzate all’attuazione di opere pubbliche o
d’interesse pubblico».
Ne elenchiamo alcune: «edilizia residenziale pubblica o
sociale», «aree pubbliche trasferite o da trasferirsi in attuazione del piano
di alienazioni del patrimonio immobiliare», «aree individuate da accordi
pubblico-privati» già in essere, «aree destinate a interventi di rilievo
sovracomunale, previa autorizzazione della giunta regionale».
Non
solo, ma nell’attesa di un successivo provvedimento regionale che stabilisca «i
limiti del consumo di suolo per finalità urbanistico-edilizio» si consente comunque
ai comuni di «individuare nei “piani degli interventi” vigenti fino al 50%
delle superfici corrispondenti al carico insediativo aggiuntivo previsto dai
“piani di assetto territoriale”», conservandone la capacità edificatoria. Si
tenga conto che secondo stime autorevoli, i “piani di assetto territoriale”
hanno generalmente convalidato le previsioni contenute nei PRG vigenti, i quali
consentirebbero un aumento pari al 40% dell’attuale
urbanizzato (vedi: Legambiente Veneto, Osservazioni al progetto di legge della Giuntaregionale del Veneto n. 390. Un parere molto critico lo ha formulato anche il Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in Ambienti Complessi.
Nulla,
quindi, per il contenimento del consumo di suolo, ma tranquilla prosecuzione
del trend che ha fatto del Veneto, come gli stessi presentatori ammettono
nell’accattivante relazione, una delle regioni peggiori d’Italia. Ma
vediamo in che consiste quello che è il vero obiettivo della legge: la
cosiddetta ”rigenerazione urbana” .
Per
cominciare si dichiara che «sono da considerarsi d’interesse pubblico anche ai
fini dell’eventuale rilascio di permessi da costruire in deroga» una serie di
interventi di demolizione (manufatti privi di vincoli di protezione, o
ricadenti in aree soggette a rischio idraulico o geologico, manufatti
degradati, o che comunque dequalificano il tessuto urbano circostante). Si
prosegue dichiarando che «è consentita la riutilizzazione propria dei manufatti
demoliti con destinazioni d’uso anche diverse da quelle attuali, in loco o in
altra area compresa nel tessuto urbano già consolidato».
Che
cosa questo c’entri con una “rigenerazione edilizia” correttamente intesa non
si comprende proprio. Basta però andare al comma successivo il quale chiarisce
che: «per promuovere la rigenerazione edilizia i comuni possono prevedere
«anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, un incremento premiale
della volumetria o della superficie utile fino al 15%», incrementabile fino al
30% se la Giunta regionale è d’accordo.
L’esame,
e l’implicita denuncia, potrebbero continuare. Ma limitiamoci a tirar fuori il
succo dalle disposizioni. Rigenerazione edilizia “alla veneta” significherebbe
aumento indiscriminato dei volumi edificati in ogni parte del territorio già
totalmente o parzialmente edificato (comprese le aeree di completamento, cioè
d’espansione, previste dai piani vigenti). Significherebbe riduzione del
rapporto tra aree edificate e aree libere, tra aree e volumi di proprietà e uso
privato e aree e volumi di uso pubblico (e naturalmente nessuna probabilità che
all’aumentato numero di abitanti corrisponda un aumento delle dotazioni
pubbliche. Nessuna garanzia di mantenimento in loco degli abitanti già
insediati e anzi promozione di un’espulsione delle famiglie e delle attività
più povere. Nessuna possibilità di attuare una pianificazione finalizzata ad
avere un minimo di razionalità dell’equilibrio tra le diverse funzioni sul
territorio) abitazioni, commercio, attività lavorative, servizi pubblici, e
quindi mobilità. Il caos primigenio, qualcosa di simile agli slums e alle
favelas ma con volumi eccezionalmente maggiori e assoluta irreversibilità della
trasformazione
Una proposta di eddyburg
Esiste infine una proposta di legge nazionale di un gruppo di amici di eddyburg, basata sulla possibilità costituzionalmente
legittima di un intervento diretto dello Stato che costituisca un vincolo insuperabile
per le regioni che volessero resistere.
Già nel 2006 un gruppo di amici di eddyburg aveva presentato
una proposta di legge che fu fatta propria dai gruppi parlamentari della
sinistra. La XV legislatura si concluse con un nulla di fatto. Poi le varie
vicende che hanno condotto alla proposta Catania e al suo progressivo
indebolimento. Ci eravamo via via convinti che era illusorio basarsi su
procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni. Se una sola di
loro aveva positivamente reagito e il suo esempio non era stato seguito da
nessuna delle altre (e platealmente ignorato o contrastato dalla cultura
urbanistica ufficiale) occorreva aggiustare il tiro.
Fino ad allora ci si era riferiti alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3,
della Costituzione, (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni,
riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali: un
percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli).
Nella nuova proposta
di legge di eddyburg si suggerisce invece di riferirsi al comma 2, lettera s) dello stessa
articolo, che elenca le materie in cui la potestà legislativa è di competenza
esclusiva dello Stato. In effetti, come si afferma nella proposta, la
salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua
valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei
singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela
dell’ambiente e del paesaggio.
Questo cambio di
prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze
legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali
porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività
di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale
Per concludere: due modesti obiettivi
Non nutriamo nessuna speranza che l’attuale Parlamento,
dominato e di fatto sostituito dall’attuale governo, possa esprimere la
volontà
di affrontare l’argomento nell’unico modo che ci sembra suscettibile di
un
risultato positivo. E ci rendiamo anche conto che non basta contenere il
consumo di suolo per risolvere tutti i problemi che una effettiva
riutilizzazione
delle aree giù urbanizzate pone per essere diversa da quella oggi
dominante. Cosa, quest'ultima, molto facie se si torna ai principi e
alle pratiche della buona urbanistica
Ci proponiamo unicamente di raggiungere due obiettivi.
Il primo è denunciare il ruolo della cultura urbanistica
ufficiale. Abbiamo sentito pochissime voci opporsi all’ignobile progetto Zaia
(soltanto, in sede locale, quelle di Legambiente Veneto e dell’Università IUAV di
Venezia). Ne registreremo volentieri altre se ci perverranno.
Ma soprattutto
riconosciamo in quel progetto di legge molti dei gravi cedimenti della corretta
urbanistica (un’urbanistica al servizio di tutti gli abitanti, a cominciare dai
più deboli, e non al servizio degli interessi immobiliari): i premi di
cubatura, le deroghe, la perversa invenzione dei “diritti eduficatori”, la
possibilità di modificare ad libitum le destinazioni d’uso, i crediti edilizi
collocabili al di fuori di qualunque contesto pianificatorio, la scomparsa
degli standard urbanistici pubblici, la tranquilla liquidazione dei patrimoni
immobiliari pubblici. Ma potremmo continuare il nostro elenco.
Il secondo obiettivo è quello di richiamare l’attenzione
delle forze sociali e politiche che intendono “cambiare verso” alla distruzione
del territorio a alla crescita del disagio urbano, e sollecitarle ad affrontare il tema con
maggiore attenzione e maggior rigore di quello finora dimostrato. Abbiamo l’impressione
che - vogliamo dirlo schiettamente - la cultura urbanistica, nel senso di una
vigile comprensione del modo in cui il sistema normativo si traduce in concrete
decisioni incidenti sulla qualità della vita dei cittadini attuali e futuri sia
del tutto assente dalla cassetta degli attrezzi dei decisori.
Comprendiamo che i tempi sono cambiati da quelli in cui campeggiavano nell’arengo politico e amministrativo personaggi come Fiorentino Sullo o Camillo Ripamonti o Aldo Natoli o Giacomo Mancini o Piero Bucalossi, ma qualcosa di più di quello che il panorama attuale presenta si potrebbe pretenderlo. Non ci riferiamo tanto alla “destra” (per i cui esponenti il “verso” attuale è più che soddisfacente e le assicurazioni tecniche della cultura urbanistica ufficiale sono largamente sufficienti per affinità ideologica) ma soprattutto a “sinistra” o dove comunque ci si ponga l’obiettivo di rendere città e territorio più idonei a soddisfare le esigenze attuali e future dei loro abitanti.