«Io sono un chirurgo. Ho
visto i feriti (e i morti) di
vari conflitti in Asia,
Africa, Medio Oriente, America
Latina e Europa. Ho operato
migliaia di persone, ferite da
proiettili, frammenti di bombe
o missili.
A Quetta, la città pakistana
vicina al confine afgano, ho
incontrato per la prima volta
le vittime delle mine
antiuomo. Ho operato molti
bambini feriti dalle
cosiddette "mine giocattolo",
piccoli pappagalli verdi di
plastica grandi come un
pacchetto di sigarette. Sparse
nei campi, queste armi
aspettano solo che un bambino
curioso le prenda e ci giochi
per un po', fino a quando
esplodono: una o due mani
perse, ustioni su petto, viso
e occhi. Bambini senza braccia
e ciechi. Conservo ancora un
vivido ricordo di quelle
vittime e l'aver visto tali
atrocità mi ha cambiato la
vita.
Mi è occorso del tempo per
accettare l'idea che una
"strategia di guerra" possa
includere prassi come quella
di inserire, tra gli
obiettivi, i bambini e la
mutilazione dei bambini del
"paese nemico". Armi
progettate non per uccidere,
ma per infliggere orribili
sofferenze a bambini
innocenti, ponendo a carico
delle famiglie e della società
un terribile peso. Ancora oggi
quei bambini sono per me il
simbolo vivente delle guerre
contemporanee, una costante
forma di terrorismo nei
confronti dei civili.
Alcuni anni fa, a Kabul, ho
esaminato le cartelle cliniche
di circa 1200 pazienti per
scoprire che meno del 10%
erano presumibilmente dei
militari. Il 90% delle vittime
erano civili, un terzo dei
quali bambini. È quindi questo
"il nemico"? Chi paga il
prezzo della guerra?
Nel secolo scorso, la
percentuale di civili morti
aveva fatto registrare un
forte incremento passando dal
15% circa nella prima guerra
mondiale a oltre il 60% nella
seconda. E nei 160 e più
"conflitti rilevanti" che il
pianeta ha vissuto dopo la
fine della seconda guerra
mondiale, con un costo di
oltre 25 milioni di vite
umane, la percentuale di
vittime civili si aggirava
costantemente intorno al 90%
del totale, livello del tutto
simile a quello riscontrato
nel conflitto afgano.
Lavorando in regioni devastate
dalle guerre da ormai più di
25 anni, ho potuto toccare con
mano questa crudele e triste
realtà e ho percepito l'entità
di questa tragedia sociale, di
questa carneficina di civili,
che si consuma nella maggior
parte dei casi in aree in cui
le strutture sanitarie sono
praticamente inesistenti.
Negli anni, Emergency ha
costruito e gestito ospedali
con centri chirurgici per le
vittime di guerra in Ruanda,
Cambogia, Iraq, Afghanistan,
Sierra Leone e in molti altri
paesi, ampliando in seguito le
proprie attività in ambito
medico con l'inclusione di
centri pediatrici e reparti
maternità, centri di
riabilitazione, ambulatori e
servizi di pronto soccorso.
L'origine e la fondazione di
Emergency, avvenuta nel 1994,
non deriva da una serie di
principi e dichiarazioni. È
stata piuttosto concepita su
tavoli operatori e in corsie
d'ospedale. Curare i feriti
non è né generoso né
misericordioso, è
semplicemente giusto. Lo si
deve fare.
In 21 anni di attività,
Emergency ha fornito
assistenza medico-chirurgica a
oltre 6,5 milioni di persone.
Una goccia nell'oceano, si
potrebbe dire, ma quella
goccia ha fatto la differenza
per molti. In qualche modo ha
anche cambiato la vita di
coloro che, come me, hanno
condiviso l'esperienza di
Emergency.
Ogni volta, nei vari conflitti
nell'ambito dei quali abbiamo
lavorato, indipendentemente da
chi combattesse contro chi e
per quale ragione, il
risultato era sempre lo
stesso: la guerra non
significava altro che
l'uccisione di civili, morte,
distruzione. La tragedia delle
vittime è la sola verità della
guerra.
Confrontandoci quotidianamente
con questa terribile realtà,
abbiamo concepito l'idea di
una comunità in cui i rapporti
umani fossero fondati sulla
solidarietà e il rispetto
reciproco.
In realtà, questa era la
speranza condivisa in tutto il
mondo all'indomani della
seconda guerra mondiale. Tale
speranza ha condotto
all'istituzione delle Nazioni
Unite, come dichiarato nella
Premessa dello Statuto
dell'ONU: "Salvare le
future generazioni dal
flagello della guerra, che
per due volte nel corso di
questa generazione ha
portato indicibili
afflizioni all'umanità,
riaffermare la fede nei
diritti fondamentali
dell'uomo, nella dignità e
nel valore della persona
umana, nell'uguaglianza dei
diritti degli uomini e delle
donne e delle nazioni grandi
e piccole".
Il legame indissolubile tra
diritti umani e pace e il
rapporto di reciproca
esclusione tra guerra e
diritti erano stati inoltre
sottolineati nella
Dichiarazione universale dei
diritti umani, sottoscritta
nel 1948. "Tutti gli
esseri umani nascono liberi
ed eguali in dignità e
diritti" e il
"riconoscimento della
dignità inerente a tutti i
membri della famiglia umana
e dei loro diritti, uguali
ed inalienabili, costituisce
il fondamento della libertà,
della giustizia e della pace
nel mondo".
70 anni dopo, quella
Dichiarazione appare
provocatoria, offensiva e
chiaramente falsa. A oggi, non
uno degli stati firmatari ha
applicato completamente i
diritti universali che si è
impegnato a rispettare: il
diritto a una vita dignitosa,
a un lavoro e a una casa,
all'istruzione e alla sanità.
In una parola, il diritto alla
giustizia sociale. All'inizio
del nuovo millennio non vi
sono diritti per tutti, ma
privilegi per pochi.
La più aberrante in assoluto,
diffusa e costante violazione
dei diritti umani è la guerra,
in tutte le sue forme.
Cancellando il diritto di
vivere, la guerra nega tutti i
diritti umani.
Vorrei sottolineare ancora una
volta che, nella maggior parte
dei paesi sconvolti dalla
violenza, coloro che pagano il
prezzo più alto sono uomini e
donne come noi, nove volte su
dieci. Non dobbiamo mai
dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre
2015, sono stati uccisi oltre
4000 civili in vari paesi, tra
cui Afghanistan, Egitto,
Francia, Iraq, Libia, Mali,
Nigeria, Siria e Somalia.
Molte più persone sono state
ferite e mutilate, o costrette
a lasciare le loro case.
In qualità di testimone delle
atrocità della guerra, ho
potuto vedere come la scelta
della violenza abbia - nella
maggior parte dei casi -
portato con sé solo un
incremento della violenza e
delle sofferenze. La guerra è
un atto di terrorismo e il
terrorismo è un atto di
guerra: il denominatore è
comune, l'uso della violenza.
Sessanta anni dopo, ci
troviamo ancora davanti al
dilemma posto nel 1955 dai più
importanti scienziati del
mondo nel cosiddetto Manifesto
di Russell-Einstein:
"Metteremo fine al genere
umano o l'umanità saprà
rinunciare alla guerra?".
È possibile un mondo senza
guerra per garantire un futuro
al genere umano?
Molti potrebbero eccepire che
le guerre sono sempre
esistite. È vero, ma ciò non
dimostra che il ricorso alla
guerra sia inevitabile, né
possiamo presumere che un
mondo senza guerra sia un
traguardo impossibile da
raggiungere. Il fatto che la
guerra abbia segnato il nostro
passato non significa che
debba essere parte anche del
nostro futuro.
Come le malattie, anche la
guerra deve essere considerata
un problema da risolvere e non
un destino da abbracciare o
apprezzare.
Come medico, potrei paragonare
la guerra al cancro. Il cancro
opprime l'umanità e miete
molte vittime: significa forse
che tutti gli sforzi compiuti
dalla medicina sono inutili?
Al contrario, è proprio il
persistere di questa
devastante malattia che ci
spinge a moltiplicare gli
sforzi per prevenirla e
sconfiggerla.
Concepire un mondo senza
guerra è il problema più
stimolante al quale il genere
umano debba far fronte. È
anche il più urgente. Gli
scienziati atomici, con il
loro Orologio dell'apocalisse,
stanno mettendo in guardia gli
esseri umani: "L'orologio
ora si trova ad appena tre
minuti dalla mezzanotte
perché i leader
internazionali non stanno
eseguendo il loro compito
più importante: assicurare e
preservare la salute e la
vita della civiltà umana".
La maggiore sfida dei prossimi
decenni consisterà
nell'immaginare, progettare e
implementare le condizioni che
permettano di ridurre il
ricorso alla forza e alla
violenza di massa fino alla
completa disapplicazione di
questi metodi. La guerra, come
le malattie letali, deve
essere prevenuta e curata. La
violenza non è la medicina
giusta: non cura la malattia,
uccide il paziente.
L'abolizione della
guerra è il primo e
indispensabile passo in
questa direzione.
Possiamo chiamarla
"utopia", visto che non è
mai accaduto prima.
Tuttavia, il termine utopia
non indica qualcosa di
assurdo, ma piuttosto una
possibilità non ancora
esplorata e portata a
compimento.
Molti anni fa anche
l'abolizione della schiavitù
sembrava "utopistica". Nel
XVII secolo, "possedere degli
schiavi" era ritenuto
"normale", fisiologico.
Un movimento di massa, che
negli anni, nei decenni e nei
secoli ha raccolto il consenso
di centinaia di migliaia di
cittadini, ha cambiato la
percezione della schiavitù:
oggi l'idea di esseri umani
incatenati e ridotti in
schiavitù ci repelle.
Quell'utopia è divenuta
realtà.
Un mondo senza guerra è
un'altra utopia che non
possiamo attendere oltre a
vedere trasformata in realtà.
Dobbiamo convincere milioni di
persone del fatto che abolire
la guerra è una necessità
urgente e un obiettivo
realizzabile. Questo concetto
deve penetrare in profondità
nelle nostre coscienze, fino a
che l'idea della guerra
divenga un tabù e sia
eliminata dalla storia
dell'umanità.
Ricevere il Premio Right
Livelihood Award, il "Nobel
alternativo", incoraggia me
personalmente ed Emergency nel
suo insieme a moltiplicare gli
sforzi: prendersi cura delle
vittime e promuovere un
movimento culturale per
l'abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione
per fare appello a voi tutti,
alla comunità dei colleghi
vincitori del Premio, affinché
uniamo le forze a sostegno di
questa iniziativa.
Lavorare insieme per
un mondo senza guerra è la
miglior cosa che possiamo
fare per le generazioni
future».
-- Gino Strada ha
pronunciato questo discorso
a Stoccolma (Svezia) lunedì
30 novembre, durante la cerimonia
di consegna dei Right
Livelihood Awards, i
"premi Nobel
alternativi". Un importante
riconoscimento per il lavoro
di Emergency contro la
guerra e a favore delle
vittime, un premio di cui
siamo tutti molto orgogliosi
e che ci spinge a fare
sempre di più, ogni giorno,
per raggiungere il nostro
obiettivo: un mondo senza
guerre in cui non ci sia più
bisogno di noi.
IL DISCORSO DI GINO STRADA ALLA CERIMONIA DEI NOBEL ALTERNATIVI