Sconfitto a Roma e a Torino dal Movimento 5 Stelle – una formazione politica che rivendica di essere «antisistema» - il Partito Democratico del presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi esce indebolito dalle elezioni comunali del 19 giugno. La sua riforma del mercato del lavoro, il famoso «Jobs Act», ha sedotto i media, gli ambienti padronali e i socio-liberali europei più degli elettori italiani…
Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi ama presentarsi come un dirigente politico moderno e innovatore. Così la sua riforma del mercato del lavoro avrebbe liberato il Paese dai suoi arcaismi e fatto diminuire la disoccupazione. Note sotto il nome di «Jobs Act», le misure adottate dal suo governo per rilanciare l’occupazione non hanno fatto altro se non spingere ancora più avanti la logica delle vecchie ricette liberiste.
La flessibilità del mercato del lavoro italiano ha avuto inizio nel 1983, quando le parti sociali (federazioni sindacali, padronato e ministero del Lavoro) hanno sottoscritto l’accordo Scotti (1). Oltre che limitare l’indicizzazione dei salari in rapporto al costo della vita, questo testo introdusse il primo contratto atipico, a tempo determinato e destinato ai giovani: il «contratto di formazione e lavoro». Dopo di allora numerose leggi hanno allargato la gamma dei contratti disponibili, cosicché ne esistono oggi quasi quaranta. Nel 1997 la legge Treu ha legalizzato il lavoro temporaneo; nel 2003 la riforma Biagi-Maroni ha inventato il contratto di lavoro effettuato in subappalto. Nel 2008 è stato messo in opera il sistema dei voucher, «buoni di lavoro» del valore di 10 euro lordi all’ora, utilizzati soprattutto nei settori poco o per niente qualificati. La diversificazione dei tipi di contratto è stata accompagnata da misure miranti ad accrescere il potere dei datori di lavoro. Fra le più recenti, la legge detta del collegato lavoro, votata nel 2010, limita la possibilità per i salariati di ricorrere alla giustizia in caso di abusi da parte dei datori di lavoro e la legge Fornero (2012) facilita i licenziamenti individuali per motivi economici.
Le riforme messe in atto da Renzi nel 2014 e 2015 s’iscrivono nella continuità di questa storia e forse la concluderanno, tanto hanno istituzionalizzato la precarietà. Così il contratto a durata indeterminata «a protezione crescente» (CDI), entrato in vigore nel 2015, non ha molto di perenne né di protettivo. Nel corso dei tre primi anni i datori di lavoro possono porvi fine in ogni momento e senza motivazioni. Il loro solo obbligo è quello di versare al salariato licenziato un’indennità proporzionale alla sua anzianità. L’emblematico art. 18 dello Statuto dei lavoratori (2), che obbliga a motivare ogni licenziamento individuale con una «giusta causa» (colpa grave, furto, assenteismo…) si trova così posto fra parentesi durante trentasei mesi. La formula ricorda il contratto di prima assunzione immaginato dal primo ministro francese Dominique de Villepin nel 2006, tranne che il dispositivo italiano non si limita a chi ha meno di 26 anni, ma concerne l’insieme della mano d’opera.
Il governo Renzi ha ugualmente deregolamentato l’applicazione dei contratti a durata determinata (CDD). Dal marzo 2014 la legge Poletti – dal nome del ministro del Lavoro Giuliano Poletti – permette ai datori di lavoro di farvi ricorso senza doversene giustificare e di rinnovarli fino a cinque volte senza periodo di carenza. Questa limitazione è per di più teorica: non si applica alle persone ma ai posti di lavoro. Quindi è sufficiente modificare sulla carta una definizione del posto di lavoro per condannare a vita un salariato al lavoro instabile.
In queste condizioni, perché le imprese sceglierebbero dei CDI a «protezione crescente» piuttosto che una successione di CDD? La risposta è semplice: per interesse finanziario. Il governo Renzi ha effettivamente posto in opera incentivi fiscali che permetterebbero, per tutti i CDI sottoscritti nel 2015, di risparmiare fino a 8.000 euro all’anno. Poiché l’austerità lo esige (austerité oblige), questa disposizione molto onerose per lo Stato è stata rivista al ribasso dalla Legge di stabilità del 2016 e i guadagni possibili per i datori di lavoro si stabiliscono ormai sui 3.300 euro. Il «Jobs Act» quindi ha creato un effetto-pacchia: fare sottoscrivere un contratto «a protezione crescente», poi licenziare il salariato senza giustificazione, diventa più redditizio che non ricorrere a un CDD. Grossolano tiro mancino statistico, il ribaltamento dai CDD verso i CDI permette di gonfiare artificialmente le statistiche dell’impiego detto «stabile», mentre la precarietà continua ad aumentare.
Le riforme di Renzi non hanno scatenato scioperi o manifestazioni paragonabili al movimento contro la legge El Khomri in Francia. Contrariamente alla sua vicina, l’Italia non ha salario minimo, salvo che per i mestieri coperti da convenzioni collettive, che proteggono un numero sempre più ridotto di lavoratori (oggi meno del 50%). D’altra parte non esiste il «principio di protezione»: nulla obbliga gli accordi d’impresa a proporre per i salariati condizioni più vantaggiose degli accordi di categoria i quali, da parte loro, non sono necessariamente più favorevoli di quanto stabilisce il Diritto del lavoro (3). I salariati sono così molto vulnerabili al ricatto del loro padrone. Il Paese non ha nemmeno un equivalente del reddito di solidarietà attiva (RSA) [ndt.: vigente in Francia, v. http://www.lavoce.info/archives/25419/reddito-minimo-alla-francese/ ], anche se condizionato al reinserimento professionale. Gli ammortizzatori sociali sono pensati soprattutto per il salariato con CDI: la massa dei nuovi precari se ne trova esclusa. Combinata alla crisi economica, alla debolezza dei sindacati, al ristagno dei redditi e al rafforzamento del controllo padronale - il «Jobs Act» autorizza alcune tecniche di controllo a distanza dei salariati, con il rischio di insidiare la loro vita privata – questa situazione spiega la debole resistenza incontrata dalle recenti disposizioni.
Più del 40% dei giovani nella disoccupazione
Allo scopo di difendere le loro riforme, Renzi e i suoi ministri si sono barricati dietro gli stessi argomenti dei loro predecessori a Roma e dei loro omologhi conservatori in Germania o socialisti in Francia: l’«ammorbidimento» del Diritto del lavoro sarebbe una condizione necessaria (e sufficiente) per costruire un’economia moderna e fare diminuire la disoccupazione, in particolare quella dei giovani. «L’art. 18 data dagli anni ’70 e la sinistra allora non l’aveva nemmeno votato. Noi siamo nel 2014; questo ci farebbe prendere un iPhone e tornare a chiedere: “Dove si deve mettere il gettone?” o tentare di mettere la pellicola in una macchina fotografica digitale», così ha ritenuto [di poter affermare] il presidente del Consiglio (4).
Il governo e molti media presentano il «Jobs Act» come un indiscutibile successo. «Un mezzo milione di posti di lavoro creati nel 2015. [L’Istituto nazionale di Statistica] dimostra l’assurdità delle polemiche sul Jobs Act», diffondeva ai quattro venti Renzi su Twitter il 19 gennaio 2016. «Con noi le imposte diminuiscono e l’occupazione aumenta», scriveva ancora il 2 marzo. È vero che nel 2015, per la prima volta dall’inizio della crisi economica che ha distrutto circa un milione di posti di lavoro, la curva della disoccupazione si è (leggermente) invertita: - 1,8%... Tuttavia questa modesta inversione di tendenza si spiega soprattutto con la spintarella fiscale che ha accompagnato la creazione del CDI «a protezione crescente». Poiché il periodo di prova è di tre anni sarà necessario attendere il 2018 per fare un bilancio di questi nuovi contratti; ma già da ora si può constatare che la diminuzione degli incentivi finanziari ha comportato un’immediata contrazione nella creazione di posti di lavoro. Il numero di CDI firmati nel primo trimestre 2016 è precipitato del 77% rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente (5).
D’altra parte, la diminuzione della disoccupazione nel 2015 maschera il ricorso esponenziale al sistema dei voucher, in particolare nei settori poco qualificati, nei quali i prestatori d’opera sono considerati intercambiabili. Nel 2015 erano toccate 1,38 milioni di persone (contro 25.000 nel 2008) e sono stati venduti 115 milioni di «buoni» (contro 10 milioni nel 2010) (6). Logicamente il tasso di precarietà ha anch’esso seguito una linea ascendente: secondo i dati dell’OCSE (Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico), nel 2011 il 43% dei giovani italiani si trovavano in una situazione lavorativa instabile; nel 2015 erano il 55%. Allo stesso tempo il tasso di disoccupazione dai 15 ai 24 anni d’età è aumentato di dieci punti, superando la soglia del 40%.
Eppure l’Italia non ha risparmiato i suoi sforzi per uniformarsi alle norme dell’economia moderna: il «grado di protezione dell’impiego» - un indice elaborato dall’OCSE per misurare la «rigidità» del mercato del lavoro – vi si è ridotto di un terzo in dieci anni…
Dall’arrivo alla presidenza del Consiglio in poi Renzi ha puntato tutto su una politica dell’offerta. Oltre al Jobs Act, le Leggi di Stabilità del 2015 e del 2016 hanno pianificato riduzioni d’imposta per le imprese, una riduzione delle tasse sul patrimonio, una diminuzione delle spese delle collettività locali e la privatizzazione di alcuni servizi pubblici (nel settore dei trasporti, dell’energia e delle poste). Secondo la filosofia che orienta queste misure (7), l’aumento dei profitti e la diminuzione dei costi comporterebbe automaticamente un aumento degli investimenti e quindi della produzione e dell’occupazione.
Questo ragionamento è ampiamente errato. La disoccupazione in Italia non si spiega con le strutture interne del mercato del lavoro: risulta innanzitutto dalla debolezza della domanda, perché nessuna impresa si arrischia ad aumentare la sua produzione se teme che i suoi prodotti o servizi non trovino compratori. Ora, il governo Renzi non ha fatto nulla per rilanciare la domanda in modo strutturale: né salario minimo, né riforma della protezione sociale a favore dei bassi salari, né reddito garantito.
Risultato: dal 2014 il prodotto interno lordo (PIL) ristagna e il rapporto debito pubblico/PIL non dà cenno di ridursi, perché il denominatore del rapporto non aumenta. Il Jobs Act ha diviso il mercato del lavoro in tre segmenti principali, ognuno dei quali vede l’instabilità eretta a norma. Il primo raggruppa i giovani senza formazione universitaria, che generalmente entrano nella vita attiva con contratti di apprendistato (poco protettivi) e, sempre più, con voucher (ancor meno protettivi). Nel secondo si trovano i giovani che dispongono di un livello di qualificazione medio o elevato (corso universitario triennale o master). Per favorire il loro inserimento il governo si fonda sul Piano «Garanzia giovani». Finanziato dell’Unione Europea e destinato ai Paesi che presentano un tasso di disoccupazione elevato, questo Piano mira ufficialmente a migliorare l’«assumibilità» dei giovani proponendo loro, attraverso piattaforme regionali che riuniscono imprese private e pubbliche, «percorsi d’inserimento» adatti alle necessità di quelle stesse imprese: il servizio civile (gratuito), lo stage (quasi gratuito) e il lavoro di volontariato. Sperimentato dapprima nel 2013 per l’assunzione di 700 persone nella prospettiva dell’Esposizione universale di Milano (oltre a migliaia di volontari), questo modello è stato in seguito trasposto a livello nazionale (8). Esso ha già permesso di occupare 600.000 giovano e di farli uscire, a costi minimi, dalle statistiche della disoccupazione. Infine, per il resto dei lavoratori – vale a dire per quelli con 30 anni o più – il CDD rinnovato indefinitamente e il CDI «a protezione crescente» sono destinati a diventare i contratti standard fino all’età della pensione. Soltanto i lavoratori giudicati efficienti e indispensabili per il nucleo di attività dell’impresa possono essere assunti in modo stabile e fidelizzati.
Come dimostra il Piano «Garanzia giovani», il lavoro gratuito, alimentato dalla «economia della promessa» (9), che rimanda sempre a più tardi l’ottenimento di un lavoro remunerato e stabile, diventa la nuova frontiera della deregolamentazione del mercato italiano del lavoro. Le riforme di Renzi hanno consacrato la condizione di precario, conferendole una natura allo stesso tempo strutturale e generalizzata. Ora, lo sviluppo della precarietà figura giustamente fra le prime cause della stagnazione economica dell’Italia, che serve a giustificare le misure miranti ad accrescere la precarietà del lavoro…
(1) Accordo del 22 gennaio 1983 portato avanti da Vincenzo Scotti, ministro del Lavoro democristiano, che introdusse ugualmente il calcolo per annualità del tempo di lavoro.
(2) Adottato il 20 maggio 1970, lo Statuto dei lavoratori fissa determinate norme del Diritto del lavoro italiano.
(3) Vedi Sophie Béroud, « Imposture de la démocratie d’entreprise », Le Monde diplomatique, avril 2016
(4) Discorso alla «Leopolda», riunione annuale pubblica del Partito Democratico, il 26 ottobre 2014.
(5) « Lavoro, INPS : “Nei primi tre mesi nuovi posti stabili giù del 77 % dopo il dimezzamento degli sgravi” », Il Fatto Quotidiano, Rome, 18 mai 2016
(6) Valentina Conte, « Boom di voucher : 277 milioni di ticket venduti in 8 anni », La Repubblica, Rome, 16 mai 2016
(7) Secondo il «teorema di Helmut Schmidt», ex Cancelliere ovest-tedesco, 1918-2015, «i profitti di oggi sono gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani».
(8) Lorenzo Bagnoli et Lorenzo Bodrero, « Expo, i contratti di lavoro nell’occhio del ciclone », Wired.it, 27 avril 2015.
(9) Marco Bascetta (sotto la dir. di), Economica politica della promessa, Manifestolibri, Rome, 2015.