Diceva Dario Fo: “La merda ci arriva fin qui” e con la mano destra indicava il mento, per poi proseguire, dopo una pausa: “Per questo camminiamo a testa alta.”
Ecco, credo che ormai non possiamo nemmeno più camminare a testa alta, ridotti all’impotenza della ripetizione. Eredi di una tradizione nobile ma conclusa da tempo, non abbiamo interlocutori, ce la raccontiamo tra noi, come vecchi reduci di guerra o come i soldati giapponesi nascosti nella foresta filippina a guerra conclusa e sconfitta riconosciuta.
Viviamo nell’imbroglio, “ci circonda un immenso arazzo di menzogne, sul quale pascoliamo ignari” diceva già Harold Pinter nel 2005 ricevendo il premio Nobel.
Nel frattempo la democrazia è stata sostituita dall’intrattenimento e dalla chiacchiera fatua dei talk show (che profeta, Guy Debord!); la povertà, quella vera, avanza, da noi e nel mondo, insieme con la disoccupazione; e anche se le fervorose madamine torinesi pro TAV si fanno merito di salvare in Val di Susa la rara farfalla Zarinzia, tutta la comunità scientifica annuncia la distruzione ecologica in tempi sempre più ravvicinati (da metà secolo alcuni sono già scesi al 2030 circa: 11 anni e ci siamo). E poi: la dittatura della finanza sull’intero pianeta… I disperati in fuga da tutto, morti in mare o sotto tortura nei lager, i figli separati dai genitori… mentre da noi cori sempre più striduli e stonati invocano istericamente quella crescita che ci ha portati a questo disastro materiale e valoriale. Quindi l’irrisione, quando non la gogna, per chi resistendo cerca di restare umano… ma la parola stessa “umanità” ormai confinata a puro valore nomenclatorio, un contenitore vuoto, un’etichetta… Parole diventate meri significanti, con cui cerchiamo invano di capire dove una o addirittura due generazioni hanno sbagliato.
Ha cominciato la mia, più vicina a quella del ’68 che a quella della guerra e della Resistenza: col senno di poi il ’68 fu un mutamento del costume e delle “sovrastrutture”, come si diceva un tempo, ma, in realtà, non della “ciccia” del potere reale. E aprì la strada al narcisismo, imperante a partire dagli anni Ottanta. E poi il grande tradimento della sinistra di governo, da Blair in poi, dopo la svolta Tatcher – Reagan (la prima più del secondo) e il crollo dell’Unione Sovietica, fino a regalare alla destra la questione sociale e a chiamare “riforme” i provvedimenti volti ad abbattere quel tanto di welfare che si era faticosamente costruito nel secondo dopoguerra. (Su questo ha poche, nette pagine La scopa di don Abbondio, di Luciano Canfora: un saggio tra storia e filosofia della storia, un po’ scucito ma molto lucido. E anche solo la definizione di Macron come “fringuello neoliberista” varrebbe la spesa del libro!)
Ma anche potendo e volendo, a chi parliamo? Dove sono ormai i luoghi in cui la gente è assunta, lavora, si raduna, discute, ha dei sindacati? Non esistono nemmeno più le mense e tutti inneggiano alle città invase da ristoranti, gelaterie, friggitorie, banchetti di street food in gara ad allevare una popolazione di diabetici. E se qualche gruppo fa la voce grossa gli spostano la produzione in luoghi remoti e più a buon mercato. È forse possibile organizzare un’opposizione allo sfruttamento nei bar di co-working? O andiamo a raccogliere i riders correndogli dietro in bicicletta? O nei call-center siciliani o rumeni o albanesi? O nei campi controllati dal caporalato, nel Meridione come in Piemonte?
E pensiamo davvero che la mitica Rete possa sostituire il contatto diretto?
In buona compagnia, penso che stiamo vivendo un passaggio epocale, equivalente a quello aperto dal crollo dell’Impero romano o a quelli inaugurati dalla scoperta (e la conquista) delle Americhe o dalla serie di rivoluzioni industriali e conseguenti sistemi economici dal Settecento in poi. Se non esplode tutto prima, è possibile che il futuro faccia rimpiangere le distopie di molte narrazioni fantascientifiche novecentesche; probabile che il passaggio dall’egemonia dell’Occidente bianco ed euroamericano a una prevedibile egemonia dell’Oriente apra orizzonti al momento impensabili. Ci si può sbizzarrire con ipotesi e visioni. Del resto la Roma imperiale di Augusto e degli Antonini aveva un milione duecentomila abitanti, nel Medioevo era scesa a trentamila: vista dalla via Lattea la prospettiva cambia…
Ma ora, nel nostro quotidiano, incombe l’ antica domanda: che fare? Come possiamo guardare in faccia senza vergogna i più giovani, cui lasciamo come sola eredità questa schifezza?
Ci basta “non peccare”, cioè in questo caso non essere complici? Ma in realtà lo siamo, anche solo scavandoci nicchie di sopravvivenza: facciamo comunque danni, se non altro ecologici. E come non vergognarci guardando negli occhi l’africano cui diamo qualche moneta, con cui scambiamo qualche parola, che invitiamo a bere un caffé, se abbiamo un po’ di tempo nella nostra fretta metropolitana e fasulla? E guardati di brutto dal barista e dagli altri clienti… Per un imbroglione, potrei raccontare parecchie storie autentiche, tremende.
Ecco perché parlo di “vergogna”, intesa anche come sentimento di inadeguatezza rispetto a quanto abbiamo davanti agli occhi. La vergogna di cui parla Primo Levi ne La tregua, quella dei quattro russi che entrando ad Auschwitz “apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno che sigillava le loro bocche”: la vergogna che si prova “davanti alla colpa commessa da altrui”, il “senso di smarrimento” postilla Liliana Segre in Scolpitelo nel vostro cuore, “di chi è innocente di fronte al Male.”
Perché si può provare vergogna anche per altri che invece non la provano, anzi. Per esempio io mi vergogno di Salvini e di tutti quelli come lui. Mi vergogno per lui e con me stesso perché non posso o non riesco a fare nulla per impedirgli di fare quello che fa. Così come mi vergogno per l’osannato Minniti, il vero artefice degli accordi fasulli con la Libia, un paese notoriamente allo sbando (anche per interventi nostri), in mano a milizie di ogni genere che appoggiano alternativamente ora l’uno ora l’altro dei due capi, Haftar e al-Sarraj. Realpolitik? Certo, ma c’è un limite anche all’ipocrisia più spudorata e fingere che la Libia sia la Svizzera e che i migranti non vivano in lager simili, salvo le camere a gas, a quelli nazisti o cambogiani (ci ricordiamo ancora di Pol Pot?) è davvero da sprocedati, come diceva Gioachino Belli. Così come mi vergognavo, in quanto cittadino italiano, del fatto che Berlusconi avesse innalzato il tricolore sulla sua residenza personale di Palazzo Grazioli, dove di giorno riceveva anche personalità istituzionali straniere e di sera celebrava le sue festicciole private. E con i migranti mi vergogno anche per la mia appartenenza a una cultura e a un mondo in gran parte responsabili della loro condizione attuale. E il confine tra vergogna e rimorso non è così netto.
Che fare, allora? Come manifestare almeno la nostra disappartenenza? Non ho risposte operative, né mi pare di vederne tante in giro. Possiamo però testimoniare. Non stancarci di ripetere che non è così che si vive. Che l’umanità è fatta per un mondo diverso. E mandiamoci segnali di lontano, come zattere controcorrente. O come i falò nella notte di san Giovanni, di monte in monte. Ricordando l’esaltazione di Leopardi per colui che “tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune.”
FORSE NON HANNO CAPITO
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