La battaglia per bandire dal mondo l’utero in affitto è prima di tutto
una questione da femmine. Anzi, da femministe: lo ripete Kajsa Ekis
Ekman, giornalista svedese che un mese fa è arrivata fino al palco della
Conferenza di Parigi contro l’utero in affitto per spiegare da dove
deve venire il contrasto alla maternità surrogata, novello sfruttamento
da parte degli uomini ricchi del corpo delle donne. Marxista per sua
stessa definizione («l’opposizione deriva dalla mia analisi sulla
maternità surrogata come un fenomeno capitalistico che aliena l’essere
umano dalla sua stessa progenie»), 35 anni e femminista, Kajsa fa parte
della «Sverigeskvinnolobb», la lobby delle donne svedesi, storicamente a
sinistra. Settimana scorsa, sul quotidiano britannico Guardian
altrettanto storicamente a sinistra, ha raccontato i risultati
dell’indagine governativa alla base del divieto svedese all’utero in
affitto. Un Paese in cui questa disputa non è considerata confessionale e
discriminatoria dell’altrui incompreso amore ma laicissima e dalla
parte di donne e bambini.
Perché questa sarebbe una battaglia femminista?
La
maternità surrogata mercifica la donna, utilizzandola come se fosse
soltanto un utero senza diritti o sentimenti. Significa togliere tutti i
diritti a una madre e non può essere nell’interesse della donna. La
patriarchìa da sempre equivale a mettere i diritti dei padri al di sopra
di quelli delle madri, e per questo la maternità surrogata è da
considerarsi un fenomeno profondamente patriarcale. E il femminismo,
oggi come ieri, riguarda sempre la stessa cosa: consentire alle donne di
esistere al pieno del proprio potenziale.
Cosa
significa essere una femminista oggi, quando la guerra per i "diritti", e
i "diritti civili", si è allargata fino a considerare un diritto avere
un bambino a ogni costo?
Avere un figlio non è un diritto
umano. Non esiste alcuna convenzione che sancisca il diritto a usare il
corpo di una donna per i propri scopi. Chiunque desideri avere un figlio
può farlo, ma la maternità surrogata è diversa da qualsiasi altra
pratica: significa creare bambini senza madri. Il movimento femminista
sta crescendo: quando nel 2006 ho iniziato a scrivere un libro
sull’utero in affitto non conoscevo nessuno in Europa che vi si
opponesse. Ora le femministe si sono unite su questo fronte e il
Parlamento europeo ha chiesto agli Stati di bandire la maternità
surrogata in due risoluzioni, nel 2011 e nel 2016.
Nel
suo libro «Being and Being Bought: Prostitution, Surrogacy and the
Split Self» («Essere ed essere comprate: prostituzione, maternità
surrogata e il sé spaccato») affrontava concetti forti per il pensiero
occidentale: che esista un parallelo fra la prostituzione e l’utero in
affitto e che ci sia un concetto patriarcale dietro l’uso del corpo
nella maternità surrogata. Ce li spiega?
La maternità
surrogata è prostituzione riproduttiva. La differenza è che in vendita
c’è l’apparato riproduttivo e non quello genitale. Ma il concetto è
sempre che il corpo di una donna sia in vendita. È evidente nel
dibattito sull’utero in affitto che gli uomini pensano di avere una
sorta di diritto di utilizzo del corpo delle donne. Gli uomini, sia
etero sia gay, dicono: se non possiamo avere figli, abbiamo bisogno che
la società ci fornisca una donna da usare! Che cosa li ha fatti pensare
che una donna esista a loro uso e consumo? Alcuni preferiscono persino
che sia "altruistica", ovvero non vogliono nemmeno pagare! Questo
dimostra una mancanza di comprensione di cosa sia la gravidanza: nove
mesi di vita, senza parlare dei rischi e del legame psicologico che si
crea fra una mamma e il bambino. Alcuni uomini forse pensano che sia
come donare il seme... L’idea alla base della maternità surrogata
"altruistica" è che la gravidanza non valga nulla e che una donna debba
disfarsene gratuitamente, per gentilezza. Nove mesi, poi il dolore, e
lei dovrebbe solo essere felice di aiutare gli altri, perché questo è
ciò per cui sarebbero fatte le donne.
Lei parla anche di classismo...
Sì,
è ovvio che le donne che diventano surrogate non appartengano alle
classi abbienti. Dove questa industria prospera, in India, Thailandia,
Ucraina, Nepal, spesso sono donne analfabeti che vivono in campagna e
hanno poche possibilità di scelta nella vita. Sono usate come animali da
riproduzione, sottoposte a trattamenti ormonali e nella maggior parte
dei casi subiscono l’impianto di cinque embrioni per massimizzare il
tasso di successo. Quelli indesiderati sono eliminati senza nemmeno
chiedere alla donna, che non vede mai il bambino dopo averlo dato alla
luce, spesso non sa nemmeno in che Paese andrà a finire. Ovviamente
nessuna donna ricca accetterebbe di essere trattata in questo modo.
Nel
suo articolo sul «Guardian» ha scritto dell’«immagine carina ed Elton
Johneggiante» dell’utero in affitto. In Italia questo è diventato
particolarmente vistoso negli ultimi mesi, e ancor più negli ultimi
giorni, con la notizia dell’ex governatore della Puglia Nichi Vendola
che ha pagato per un figlio nato da utero in affitto all’estero. Quale
peso reale ha l’immagine patinata nel dibattito e nell’immaginario
comune sulla maternità surrogata?
La verità è che i media
hanno dipinto la maternità surrogata come una cosa sfiziosa per ricchi e
famosi. Se sei una diva di Hollywood e non vuoi rovinarti il corpo, usa
una surrogata! Idem se sei un maschio gay e non vuoi spartirti tuo
figlio con sua madre. E ci bombardano con le foto di Ricky Martin, Elton
John, Sarah Jessica Parker o Nicole Kidman, che sono felici "grazie a
una surrogata". Questo mi fa infuriare: perché non sentiamo mai chi sono
le madri di quei bambini? Perché questo è ciò che è chi dà la vita: una
madre.
Intervista