Con la netta presa di posizione contro l’ Italicum e l’abolizione del Senato come organo elettivo, il presidente Pietro Grasso è entrato di forza con tutto il suo peso istituzionale nella folta schiera di “quei sacerdoti del non si può che frenano il riformismo del Pd”, per usare il lessico di Ernesto Galli Della Loggia, interprete di un’atmosfera dominante e trasversale.
Quanto sia diffusa la diffidenza nei confronti di chi si mette di traverso al “supremo innovatore” si può ricavare, a contrariis, anche da segni diffusi molto tangibili di plauso per il capo del governo, per esempio lo striscione dei commercianti di Corso Buenos Aires con un gigantesco “Forza Renzi!”. Da registrare che in passato un ardore analogo era stato riservato a Bossi, a Letizia Moratti e ovviamente a Berlusconi.
Contro gli intellettuali “conservatori” e “faziosi”, che fanno muro a prescindere, le argomentazioni sono pressappoco di questo tenore: il Pd si trova con le “spalle al muro” e non può esimersi, analogamente a “quanto fece la Dc nella prima Repubblica accogliendo istanze e punti di vista della destra”, operazione con cui poté diventare forza egemone, dal divenire protagonista di una grandiosa riforma con “caratteri e contenuti liberali”.
A ostacolare questo processo necessario e salutare di rinnovamento, nell’assoluto rispetto dei principi di qualsiasi democrazia liberale, secondo Galli Della Loggia e seguito bipartisan, c’è sempre “quel ceto di intellettuali inclini al radicalismo e ai feticci ideologici, da Zagrebelski a Rodotà, dalla De Monticelli a Settis” che gridano allo “stravolgimento della Costituzione da parte di un Parlamento delegittimato”.
Il fatto che poi Grillo e Casaleggio abbiano firmato l’appello di costituzionalisti, giuristi ed intellettuali non embedded lanciato dalle pagine del Fatto, come era fin troppo prevedibile, sta contribuendo ad esacerbare oltremisura quelli che si ritengono depositari unici del riformismo ed autentici cultori della “rivoluzione liberale”, oggi “reincarnata” nel decisionismo renziano.
Infatti nel mondo alla rovescia che è l’Italia, nel novantesimo anniversario della Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti, pubblicata con eroica coerenza ed intransigenza quando ormai la vittoria del fascismo appariva inevitabile, questo nobile “manifesto” della cultura liberal socialista viene ancora piegato alla propaganda dell’ultima moda riformista, da imporre a colpi di fiducia.
Il primo a strumentalizzare senza vergogna l’innovazione rivoluzionaria di Piero Gobetti, fondata su una sintesi dei principi liberali e socialisti con la cultura del rigore e della responsabilità, fu Berlusconi già nel ’94; poi a seguire Massimo D’Alema per accreditarsi presso la City londinese. E dato che alla lunga il tempo è galantuomo abbiamo visto come è andata (e come sono andati) a finire.
Dopo l’abuso sfrontato subito per un ventennio dalla “rivoluzione liberale” di Piero Gobetti, che nell’aprile del ’24 tra l’altro metteva all’indice “la viltà del ceto politico” e “l’abiezione di quello intellettuale ’vile razza bastarda’ pronta a saltare sul carro del vincitore”, i sostenitori in buona fede del processo riformatore di Matteo Renzi farebbero bene ad evitare anche indirettamente riferimenti propagandistici e fuorvianti.
E così pure sarebbe auspicabile che perdessero la pessima abitudine di attaccare i pochi intellettuali non allineati, persino se un po’ faziosi, in uno stato dove il trasformismo politico e culturale per trovarsi sempre dove conviene, è in voga ininterrottamente da quando è nato.