Non basta il messaggio di solidarietà del giorno dopo alla vedova Raciti di Matteo Renzi. E nemmeno il dolore e lo sdegno che sembrano sinceri vedendo la sua espressione allo stadio, espressi dal presidente del Senato via Twitter.
In un paese normale non sarebbe nemmeno lontanamente immaginabile che il figlio di un camorrista, un signore delle curve con la maglietta inneggiante alla scarcerazione dell’assassino di un servitore dello Stato dia l’ok all’inizio di una partita. Ma non sarebbe nemmeno ipotizzabile che le massime cariche dello Stato in tribuna d’onore rimangano silenti come spettatori qualunque, anche quando l’inno nazionale viene coperto selvaggiamente dai fischi e non sentano l’imperativo morale di alzarsi.
Il fatto che il partito del condannato per frode fiscale in affidamento ai servizi sociali, dopo aver avallato e promosso ogni forma di impunità cavalchi biecamente in campagna elettorale il sacrosanto risentimento civile per l’acquiescenza istituzionale non sposta di una virgola la questione.
Quello che è successo allo stadio Olimpico di Roma e che in Italia non si sa bene quanto sdegno e indignazione reali abbia sollevato ha fatto il giro del mondo ed è stato stigmatizzato universalmente con un’unica parola: “vergogna”.
Beppe Grillo ha parlato senza mezzi termini di “morte della Repubblica” e ha sintetizzato senza circonlocuzioni la sostanza.
La Repubblica, ahinoi, fondata sul pallone, che ha fatto di uno sport una religione e che, come ha dimostrato fin troppo bene Calciopoli, continua in buona parte ad identificarsi con i suoi idoli e a mettere la tifoseria davanti a qualsiasi regola e principio morale è arrivata al punto di trattare platealmente con i violenti, i malavitosi, i delinquenti perché the show must go on. E gli affari, il calcio-scommesse e la corruzione connessi pure.
Fare iniziare la partita nonostante qualsiasi picco di violenza, qualsiasi livello di intimidazione, qualsiasi sfida alla convivenza civile “grazie” alla mediazione di personaggi che altrove sarebbero in galera o avrebbero mutato registro non è propriamente una novità per il nostro Paese. E le motivazioni sono sempre le stesse: evitare violenze peggiori e “salvaguardare” l’ordine pubblico. Se dopo 45 minuti di attesa non fosse iniziato l’incontro Napoli-Fiorentina, grazie alla “mediazione” di Genny ‘a carogna, noto anche per le performances in trasferta, il rischio concreto sarebbe stato di avere la città a ferro e fuoco e decine di feriti nelle condizioni gravissime di Ciro Esposito salvato in extremis dopo un delicatissimo intervento.
Con questo refrain, che non circola da oggi ma che è la motivazione su cui si fonda una “tolleranza” decennale dello Stato nei confronti degli ultras e della gestione del tifo e spesso delle società da parte della criminalità organizzata si è arrivati puntualmente a quel “calcio della vergogna” che domina su tutta l’informazione mondiale e che ci identifica.
Quanto lo Stato, le forze dell’ordine e le istituzioni si siano spinte su questa strada rovinosa e, parrebbe, senza ritorno nonostante le dichiarazioni tonanti del ministro dell’Interno sul “Daspo a vita” è confermato, purtroppo, dal tentativo patetico di negare l’evidenza e cioè la trattativa tra ultras e questura, avvenuta sotto gli occhi di tutti. Il questore ha ripetuto all’infinito che non c’è stata nessuna trattativa perché “società, federazione, forze dell’ordine erano tutte d’accordo che la partita si dovesse svolgere”.
Questa volta sembra troppo grossa l’ammissione della resa delle istituzioni e dei vertici dell’ordine pubblico all’organizzazione del tifo violento e criminale, forse perché come testimoni c’erano tra gli altri anche il presidente del Consiglio e il presidente del Senato.
Quando Matteo Renzi ritornerà a girare per le cancellerie europee o cercherà di scambiare battutine e pacche sulle spalle con Obama e Cameron forse qualcuno si ricorderà che è rimasto al suo posto in tribuna alla “Coppa della vergogna”.
Con buona pace degli allergici alla questione morale e alla cultura della legalità, il nostro spread in credibilità ed autorevolezza con il resto del mondo ha subito un’altra brutta impennata e andare a “battere i pugni sul tavolo” per l’Italia è e sarà sempre più arduo a prescindere dai “conti a posto”.