L’arrivo di Donald Trump alla presidenza della superpotenza
nordamericana ridisegna gli equilibri geopolitici e chiare tendenze già
in atto ci presentano scenari legati a questo evento.
Sul piano politico, l’inedita alleanza Usa–Russia porterà ad un nuovo
patto di Yalta, ad una nuova spartizione di aree di influenza,
vantaggiosa per entrambi e necessaria a creare le condizioni per
affrontare meglio il nuovo “nemico” che avanza: la Cina.
Il colosso asiatico ha ormai assunto un ruolo guida, dalla finanza
all’industria, ed un gigante economico, finanziario e militare non può
restare a lungo un nano politico.
Per la Ue questa inedita alleanza può, a prima vista, costituire una
buona occasione per dare uno sbocco pacifico alla crisi ucraina e
soprattutto vedere la fine della folla corsa della Nato a piazzare
missili sempre più vicini al cuore della Federazione russa. Ma, esiste
un rovescio della medaglia. L’ascesa di Trump e la sua entusiastica
apertura verso la Brexit, può significare il distacco definitivo della
Gran Bretagna dalla Ue, con un non improbabile effetto domino su altri
paesi europei filo-Usa e la definitiva implosione della Ue. Allo stesso
tempo, l’appoggio al governo israeliano e l’annunciato trasferimento
dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, unitamente ad una politica aggressiva
nei confronti dell’Iran, può scatenare nuovi conflitti in Medio Oriente
con conseguenze nefaste per i paesi europei, soprattutto per quelli che
si affacciano sul Mediterraneo.
Sul piano economico non ci saranno grosse novità. Non ci sarà una
Trumpeconomics paragonabile alla Reaganomics. L’attuale modello
neoliberista non verrà intaccato, anzi. Malgrado le frecciate di Trump
nei confronti dell’alta finanza il suo governo è infarcito di manager
che provengono dalla Goldman Sachs, il potentissimo istituto finanziario
le cui azioni, dopo queste nomine, sono volate a Wall Street . Ci sarà
invece un attacco frontale ai vincoli ambientali ed alle scelte
energetiche dell’amministrazione Obama. In fondo Trump e Putin
rappresentano al meglio la lobby del petrolio come mai era avvenuto
prima. Si può dire che rappresentano il canto del cigno nero, prima che
l’umanità abbandoni rapidamente questa fonte di energia. Certamente si
apre una fase di scontro globale con i movimenti ambientalisti, e i
trattati internazionali per contrastare il mutamento climatico
diventeranno carta straccia.
Con l’elezione di Trump a presidente della superpotenza nordamericana
siamo entrati simbolicamente in una nuova fase di «deglobalizzazione».
Non tanto per le annunciate misure protezionistiche nei confronti dei
prodotti cinesi, di non facile applicazione, quanto per una dinamica
complessiva dell’economia-mondo che va in questa direzione. Dobbiamo
precisare che da quando esiste il capitalismo, e soprattutto dopo la
rivoluzione industriale, si sono avuti dei cicli economici, più o meno
lunghi, di globalizzazione capitalistica e di deglobalizzazione, ovvero
di espansione dei commerci e di penetrazione delle forme capitalistiche
di produzione, e della resistenza a questi processi e relative forme di
reazione.
I segnali dell’entrata in una nuova fase di deglobalizzazione c’erano
già quando è iniziata la recessione/stagnazione dell’economia mondiale,
ovvero dalla crisi finanziaria del 2007. Secondo il Fondo Monetario
Internazione dal 2015 siamo nuovamente in recessione a livello di
economia-mondo dopo esserci stati nel biennio 2008-2010, se misuriamo i
Pil dei singoli paesi in dollari anziché in valute nazionali.
Soprattutto, un dato parla chiaro: a livello di economia-mondo dal 2003
al 2006 il commercio estero cresceva ad una velocità doppia rispetto al
Pil, dal 2007 il commercio estero cresce in misura nettamente inferiore
al Pil, e le maggiori potenze economiche hanno fatto registrare una
crescita economica superiore al commercio con l’estero.
Sul piano politico-istituzionale bisogna rilevare come segni chiari di
resistenza alla globalizzazione il fallimento del TTIP, il Trattato
Transatlantico di libero scambio tra Ue e Nafta (Nordamerica) e la fase
di arresto del TPP Trans-Pacific Partnership , il Trattato di libero
scambio tra Usa e paesi dell’area del Pacifico, sia dell’America Latina
che dell’Asia (esclusa la Cina).
Anche sul piano culturale e della vita quotidiana la globalizzazione
intesa nell’accezione ricorrente e popolare di omologazione globale sta
subendo una battuta d’arresto. La stessa comunicazione via web si sta
de-globalizzando per via delle censure che il potere politico impone per
diverse ragioni legate alla cosiddetta sicurezza dello Stato. Anche il
razzismo emergente in tutto l’occidente, e di cui Trump è uno degli
esponenti di punta, chiude le nostre società verso l’esterno, le rende
schiave della paura che è il contrario del carburante che fa avanzare la
globalizzazione. Si pensi solo al turismo che sembrava potesse
riguardare tutto il pianeta e le cui aree visitabili perché “sicure”,
dal ceto medio mondiale, sono diventate sempre più piccole.
Lo stesso Francis Fukuyama, il teorico della “fine della storia” ha
dovuto recentemente fare autocritica: il modello politico-economico ed
istituzionale made in Usa non si è globalizzato. Anzi, possiamo dire che
il modello cinese di capitalismo autoritario, con un forte ruolo del
partito unico, si sta affermando in altre parti del globo, anche dove
permane una parvenza-farsa di democrazia rappresentativa (come in
Russia). La democrazia rappresenta sempre più un ostacolo al
funzionamento del finanzcapitalismo come lo aveva magistralmente
descritto Luciano Gallino, denunciando la doppia crisi: quella sociale e
quella ambientale.
Si può ancora paragonare questa fase storica, fatti i dovuti
distinguo, con il Congresso di Vienna del 1815, quando le grandi potenze
dell’epoca pensavano di rimandare indietro le lancette della storia.
Una grande illusione. Nei decenni successivi le monarchie assolute
dovettero cedere alle monarchie costituzionali e la borghesia emergente
scalzò la nobiltà ed il vecchio ordine sociale. Ugualmente, e senza tema
di smentita, crediamo che il vecchio modello di sviluppo capitalistico,
basato sul trio finanza-petrolio- armi sarà rovesciato perché
insostenibile sul piano sociale (spaventose diseguaglianze), ambientale
(rapina e distruzione degli ecosistemi), esistenziale: la crescita per
la crescita non ha più senso, se non per una estrema minoranza di super
ricchi.
Le contraddizioni di questo modo di produzione e distribuzione del
reddito, di questo uso ed abuso di risorse naturali, sono diventate
potenzialmente esplosive, ma potrebbero trasformarsi in una catastrofica
implosione se non ci sarà una forza politica capace di trasformare lo
sfruttamento, la sofferenza, la disperazione in un progetto credibile di
un’altra società.