Il Campidoglio, da fucina quotidiana di fatti degni di aggiornamento, come ha confermato l’incredibile “colloquio” senza freni con un giornalista della Stampa dell’assessore all’urbanistica Berdini, è diventato con “la patata bollente” di Vittorio Feltri e l’indignazione espressa dallo stesso circuito politico-mediatico che ha eletto la Raggi come bersaglio prima ancora che diventasse sindaco, anche la migliore vetrina dell’ipocrisia dominante.
Come ha scritto Marco Travaglio su Il Fatto dell’11 febbraio “quasi tutta la stampa da settimane scrive con frasette allusive e ammiccanti le stesse cose che Feltri ha tradotto in quel titolo da trivio” e sul “crinale spinoso, sessista ed inutile” della presunta liaison con Salvatore Romeo insieme ai troppi giornalisti eccitati dalle polizze, anche dopo le smentite della Procura su ipotesi corruttive a carico della Raggi, si è lasciato andare pure Paolo Berdini nel colloquio (più) o meno carpito.
Forse nel suo caso l’impulso a definire, con qualcuno che l’avrebbe fedelmente riportato e registrato il sindaco, a cui doveva essere legato da un rapporto di fiducia, come “inadeguata per mancanze strutturali non per gli anni” attorniata per sua scelta “da una banda”, etc. va ricercato nelle tensioni di lunga data, nelle divergenze sullo Stadio e nel desiderio di “liberarsi” da una posizione difficile in un modo molto “inopportuno”.
Ma nel comunicato con cui Berdini ha cercato di ridimensionare l’evidenza sostenendo di non sapere con chi stesse parlando denuncia anche qualcosa di molto più credibile e cioè “il linciaggio mediatico che si sta scatenando proprio nel momento in cui l’amministrazione comunale prende decisioni importanti che cambiano il modo di governare questa città”.
Dunque anche l’assessore “rosso” Berdini che non condivide nulla della storia del M5S, che è oggetto di forti critiche per la sua indipendenza e la sua intransigenza anti-edificatoria pure da parte di elettori della Raggi e che si è trovato spesso in minoranza in giunta collega “il massacro mediatico” con “il lavoro per riportare la materia urbanistica e l’affidamento degli appalti pubblici nella più assoluta trasparenza: un’azione limpida che crea problemi ad alcuni gruppi di potere”.
Al di là dei risultati tangibili, inesistenti per molti, portati a casa in 7 mesi, un tempo comunque insufficiente per mettere in campo il programma della nuova giunta, una riflessione non ipocrita sul ruolo dell’informazione “offerta” da molte testate di editori alquanto “impuri” e di concentrazioni editoriali con noti interessi ben radicati nella capitale e altrove non sarebbe fuori luogo.
Se la Raggi, in primo luogo per sua responsabilità e con il valido “aiuto” delle faide interne, si è avvitata in una spirale negativa culminata con la scelta infelice dei collaboratori più stretti, tanto che a questo punto è difficile tracciare l’identikit del nuovo temerario che potrebbe entrare in giunta all’urbanistica, è altrettanto innegabile che l’avversione per “l’alieno” radicata in un sistema mediatico da sempre allineato con chi ha il potere sta facendo la sua parte.
Per essere giornalisti poco corretti non occorre macchiarsi di chissà quali mostruosità o essere animati da una particolare vis dolosa. Basta semplicemente enfatizzare con tenacia quotidiana le debolezze o le inadeguatezze di qualcuno e mantenere un prudente silenzio su quelle di altri; o viceversa ignorare le iniziative positive e lungimiranti dei primi, per esempio la ricerca sul lavoro commissionata dai parlamentari del M5S a De Masi e dare visibilità e plauso a interventi non memorabili dei secondi come la “lectio magistralis” della Boschi alla Normale di Pisa.
Poi c’è la discriminazione che viene fatta metodicamente sugli scandali, vedi i due Romeo: Salvatore quello della Raggi monitorato minuto per minuto per aver ricevuto uno stipendio triplicato e poi ridimensionato e comunque inferiore rispetto al capo-gabinetto di Marino; e Alfredo quello amico del Giglio Magico accusato di corruzione per il gigantesco appalto Consip, un perfetto sconosciuto per i telespettatori Rai e per i lettori del 90% dei giornali.
Ma tutte le copertine dei TG, le compagnie di giro che affollano i talk in ogni fascia oraria e le prime pagine delle grandi testate nazionali come di quelle locali (spesso delle stesse concentrazioni editoriali) sono monopolizzate dalla black list di Di Maio, paragonata senza timore del ridicolo all’editto bulgaro di B.: una pagliacciata simile al parallelismo demenziale di Feltri tra “le cene eleganti di Arcore” e “la vita agrodolce” dell'”Oca del Campidoglio”.
Il vice presidente della Camera che ha reagito con un esposto alla mole di illazioni o palesi collegamenti tra le polizze di Romeo ed episodi di corruzione attribuiti al M5S e smentiti dalla procura avrebbe fatto ancora meglio a seguire la via maestra, anche se più ardua, di una bella raffica di querele per diffamazione, come ha annunciato la Raggi per il titolo di Libero. Tanto più che può aspettarsi poca soddisfazione dal presidente del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti che pure, solo per avergli risposto, è stato a sua volta messo all’indice da due campioni di giornalismo “libero” come Teresa Meli e, appunto, Vittorio Feltri.
Certo sarebbe preferibile che un rappresentante politico che, comunque è bene ricordarlo non ha cariche di governo, non arrivasse a stilare alcun elenco, cosa che avrà ritenuto di fare dopo gli attacchi per le “accuse generiche” a tutta la categoria.
Però quando si ascoltano dal mondo giornalistico, e purtroppo anche da un giornalista di valore come Giovanni Bianconi reazioni tanto sprezzanti riguardo l’elettorato del M5S “il piccolo mondo che segue tutte queste cose qui: blog, internet…”, oppure surreali come l’elogio dell’aplomb di Andreotti rispetto al comportamento “fuori dalla grazia di Dio” di Di Maio &Co., si è molto tentati di derubricare “la lista di proscrizione” a legittima difesa.