Di fronte alla mini-scissione del Pd e alla conferma della sua linea neoliberale, credo sia necessario riflettere su quali spazi si aprano per una “quarta posizione” che funga da catalizzatore per un cambiamento di prospettiva politica potenzialmente egemonica. Qualche giorno fa Concita de Gregorio rifletteva su come il tradimento del referendum del 2011 da parte dei vertici del Pd ne abbia determinato l’inizio della fine. Il popolo italiano allora manifestò chiaramente la volontà di invertire la rotta, mettendosi alle spalle privatizzazioni, liberalizzazioni e politiche di austerity.
Occorreva all’indomani di questo pronunciamento provare a percorrere una via in qualche misura costituente, fondata su modelli innovativi di partecipazione e di governo della cosa pubblica. Era essenziale che un partito di massa a vocazione di governo, con i piedi ben fondati nella tradizione costituzionale italiana, provasse a immaginare un ritorno al “pubblico” diverso dalla riproduzione dello statalismo partitocratico. Sarebbe stato un successo della Politica in senso alto, una fase in cui, senza nascondere la polvere sotto il tappeto, il ceto politico avrebbe dovuto creare lo spazio per consentire agli italiani di decidere insieme come governare, in una fase difficilissima, la propria casa comune.
Si poteva elaborare con piena legittimazione democratica una istituzionalizzazione a tutto campo della nuova visione ecologica, partecipativa e di lungo periodo. Infatti il movimento dei beni comuni in Italia aveva prodotto dal basso un’elaborazione costituente, che cinque anni dopo Papa Francesco ha messo in bellissima copia nell’Enciclica Laudato Si’.
Il Pd (guidato allora da Bersani) avrebbe dovuto essere il Partito capace di interpretare in Italia il superamento del neoliberismo, ma così non fu. Chi recuperò i temi referendari fu, da una posizione di netta opposizione, Beppe Grillo che tuttavia, procedendo attraverso una piattaforma tecnologica privatistica, ha finito per snaturare la politica dei beni comuni e a intercettare perciò una frazione ridotta di quei 27 milioni di voti.
L’onda lunga di questa Caporetto politica del Pd si è fatta sentire col No alle riforme ultra neoliberali di Renzi, ma questi cinque anni di ritardi, litigi e sostanziale continuità, ci hanno precipitato in una situazione molto critica: i figli delle classi dirigenti italiane sono in numeri elevatissimi già fuggiti a studiare all’estero, proprio come fu negli Anni 80 e 90 per i greci.
Il cammino interrotto nel 2011 va ripreso, all’ insegna di quell’apparato valoriale di cura della casa comune noto come conversione ecologica.
Benvenuto dunque al pentimento di Bersani, ma non è la sommatoria di leader della sinistra pentiti per il proprio scivolone neoliberale a poter fare la differenza. La unificazione politica dei diversi fuoriusciti dal Pd e delle forze altrimenti uliviste, può far cessare il patetico spettacolo del proliferare di leader senza truppe (Art.1, Possibile, Sinistra Italiana). Essa è tuttavia condizione necessaria ma per nulla sufficiente della conversione in senso ecologico e “benicomunista” della politica italiana, la sola ricetta che può arginare le derive lepeniste de noantri.
Occorre che quelle sigle partecipino alla ripresa di un’elaborazione condivisa, insieme alle migliori intelligenze del paese, all’imprenditoria non estrattiva, alle organizzazioni di massa ancora vitali, alle centinaia di movimenti che in diversa forma curano i beni comuni su tutto il territorio. Questa elaborazione “costituente dei beni comuni”, se inizierà senza ritardo creerà un tutto molto più significativo della somma delle sue parti e potrà divenire una “quarta posizione” che potrebbe generare qualche sorpresa alle prossime elezioni.