Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il
denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo,
dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: “Senza
un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema
finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno
prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una
società migliore dall’attuale può essere abbandonata”, si legge nella
prefazione al libro.
Il suo giudizio è netto, crudo e
decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto
scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di
uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci
ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice
assoluta della nostra era.
Professor Gallino, partiamo dal titolo del libro. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti?
La
crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente
legate tra loro. Mi spiego. È possibile che il capitalismo attuale sia
in una stagnazione senza fine, difficile riprenda una marcia espansiva
come se nulla fosse successo in questi anni. Con la finanziarizzazione
dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità
immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la
distruzione del nostro sistema ecologico. Per ottemperare alla crisi, il
capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori
risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento.
Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il
surriscaldamento del pianeta. Alcuni progressi sono stati intrapresi con
il Protocollo di Kyoto ma i Paesi sono lontani dal mantenere gli
obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti:
l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni etc…
Lei
narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero
critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la
lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a
questo punto?
Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha
scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche
di uguaglianza. Un apparato di super ricchi e potenti ha imposto il
proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico
ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato
totalmente in crisi. In gioco non c'è soltanto la demolizione del
welfare ma la ristrutturazione dell'intera società secondo il modello
della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante,
soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l'ordoliberalismo.
Nel
libro scrive, a proposito delle ricette economiche adottate per
affrontare la crisi, che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità...
I
governi dei Paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia
neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola
spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli
intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno
utilizzato modelli vecchi e superati. Un esempio italiano? Nella nuova
riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo
né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del
passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone
di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più
in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni
’90. Un’altra follia è l’aver avallato l’idea che una crescita senza
limiti dell’economia capitalistica sia possibile. In questa lunga
discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e
ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di
governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi
.
Con
il terremoto finanziario ha perso l’idea di uguaglianza. Un dato su
tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di
povertà in Europa. Sempre il 28 è la crescita del fatturato delle
aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non
per tutti?
Nei maggiori Paesi Ocse, nel periodo
1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali
sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di
reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato
che l'enorme diseguaglianza non è la causa ma l'effetto delle politiche
di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di
unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più
poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi.
Secondo lei, il quadro è immutabile o esiste ancora una exit strategy?
La
via d’uscita è il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari
aspetti a cominciare da quello economico. Noto con interesse che,
recentemente, si stanno sviluppando esempi di resistenza e pensatoi di
studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità ma siamo lontani da
un effettivo cambiamento dello status quo. È necessario un segnale di
rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni,
hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme
orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione:
l'intero sistema doveva essere ristrutturato come un'impresa che crea e
accumula "capitale umano". Bisogna correggere il tiro.
La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia?
Sicuramente,
basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla
sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è
andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo
che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell'euro. La
moneta unica si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente
contribuito a ridurre gli scarti tra un'economia e l'altra in termini di
ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di
processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale.
Professore, è diventato un no-euro?
Decisamente
sì, lo sono da anni, ci vuole un intervento radicale. Nello stesso
momento, credo che l’uscita dalla moneta unica sia complessa e
difficile, quindi va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles.
Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea?
Uscire
dall’Europa sarebbe, per l'Italia, un disastro economico per via dei
cambi che si scatenerebbero contro di noi. Sono favorevole ad una
graduale uscita dall'euro, rimanendo però nell’Unione Europea. È
tecnicamente possibile come provo a dimostrare in un paper che
presenterò a breve.
Una sinistra degna di questo nome non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale?
Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?
In Italia ha perso le speranze?
Ci
sono dei segmenti ma sono ininfluenti soprattutto di fronte a quel che
dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una
valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste.
Come giudica le esperienze di Syriza, Podemos, Sinn Fein e, più in generale, delle forze della sinistra europea?
Sono
novità importanti nel panorama europeo, segnali di incoraggiamento,
però sono cauto: bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se
riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche
d’austerity. Un buon cammino, tifo per loro senza illusioni.
Vuole lanciare un messaggio alle nuove generazioni?
Cambiare
in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità
vitale per l’intera umanità. E, soprattutto per i giovani, utilizzerò un
vecchio messaggio: se volete avere qualche speranza… studiate,
studiate, studiate.
“Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa”.