Credo che la riunione di stasera sancisca pubblicamente e in modo chiaro che il tentativo di impadronirsi della Costituzione che è in atto da un po’ di tempo è fallito. Questo dobbiamo dirlo, senza voler essere ottimisti, senza voler essere trionfalisti: è fallito. Se guardiamo agli atteggiamenti che vengono tenuti da parte di coloro i quali hanno fatto questo tentativo, c’è una conferma molto evidente. Dobbiamo non essere necessariamente ottimisti o voler dare un senso alle cose che facciamo: questo mi pare un dato di realtà. Il che vuol dire che vale la pena di fare queste cose.
C’è una domanda che viene fatta da tanti. L’altra sera mi trovavo alla facoltà di Economia e commercio e alcuni ragazzi mi hanno chiesto: “Vale la pena di fare queste cose?”. La risposta è sì. Credo che il tentativo di impadronirsi della Costituzione, che è stato condotto con determinazione e aggressività (non ho bisogno di fare riferimenti particolari a come si comporta e a quel che ha detto il presidente del Consiglio), questo tentativo non è arrivato al risultato che si prefiggeva. Questo è il primo elemento che dobbiamo prendere in considerazione.
C’è un dato importante e storicamente significativo: se noi guardiamo a ciò che è avvenuto dal momento in cui la costituzione è entrata in vigore a oggi, in questo momento, in quest’ultima fase – con particolare intensità ed evidenza – i cittadini si sono riconosciuti nella Costituzione. Questo è un dato di novità. Se vogliamo continuare a usare luoghi comuni, c’è stato un boomerang.
Si è cercato di impadronirsi della Costituzione e il risultato è stato quello di richiamare l’attenzione dei cittadini tutti sull’importanza della Costituzione stessa e sulla necessità che rimanga terreno comune, luogo di reciproco riconoscimento. L’ho detto altre volte, lo dico stasera: ritenere che sia un terreno comune non significa che la discussione sia preclusa.
Una seconda considerazione. Le ragioni politiche contingenti – che ci sono sempre – non possono mai essere adoperate come giustificazione del voto o dell’atteggiamento favorevole a una cattiva riforma costituzionale. Le ragioni politiche contingenti ci sono, vanno valutate per ciò che sono effettivamente, ma quando siamo di fronte al tema costituzionale il primo problema è quello di far sì che la Costituzione rimanga luogo di confronto continuo e comune.
In altri termini, il rischio è quello di introdurre elementi divisivi. Credo che uno sguardo alla storia sia sempre importante. L’assemblea costituente fu molto consapevole di tutto questo. Il lavoro di scrittura della Costituzione – qualcuno dice ‘è riuscito a sopravvivere’, ma è una parola non adeguata – è riuscito a continuare anche dopo l’estromissione del Partito comunista e del Partito socialista dal governo. C’era la consapevolezza che si trattava di qualcosa che andava oltre il contingente. Noi non possiamo fermarci alle ragioni politiche contingenti. Ce ne sono tante, alcune sono anche esposte in maniera abbastanza dignitosa. Ma tutto questo non consente di ritenere che queste ragioni possano spingere a dire un sì e a non opporsi in maniera determinata a una riforma cattiva. L’abbiamo detto in vario modo.
Alcuni hanno fatto in questo periodo delle dichiarazioni a mezza bocca, o con un tanto di strumentalità e di astuzia, dicendo “io dico sì, sapendo che”: non si dice “sì, sapendo che” quando è in ballo la Costituzione. Sono dati da una parte di onestà intellettuale, dall’altra di moralità pubblica. Ci sono elementi che non possono essere messi in discussione.
C’è un terreno comune, l’ho detto, c’è un riconoscimento reciproco del dovere di confrontarsi con maggiore intensità quando le questioni sono quelle di cui stiamo parlando.
Il problema ora è quello del non dividersi. All’assemblea costituente, fu possibile non dividersi sui temi fondamentali. Se andate a guardare quale fu il voto finale sulla Costituzione, vi renderete conto che le ragioni contingenti non impedirono questo grandissima confluenza proprio sul voto finale. In questo momento uno dei problemi maggiori è esattamente quello dell’introduzione di elementi di divisione in situazioni in cui la divisione non può essere il criterio al quale fare riferimento. Una cosa è il confronto, che è necessario e indispensabile, altra cosa è la divisione: da una parte ci sono quelli che sono riconoscibili come coloro i quali appartengono alla discussione pubblica comune, dall’altra ci sono quelli che vengono esclusi. L’aggressività che manifesta in tutte le occasioni – e credo che non gli stia giovando molto – il presidente del Consiglio non va nella direzione giusta, non va nella direzione di un presidente del Consiglio che ha ruoli istituzionali particolari. Sono più i tentativi di coprire attraverso l’aggressività le difficoltà interne al governo che non quelli di parlare ai cittadini.
Sono elementi che dobbiamo considerare. Abbiamo avuto e abbiamo una grande forza che deriva dall’aver continuato a ragionare. Tutto quello che ho sentito stasera è ragionamento. Non tutti sono partiti dalle stesse premesse, non tutti arriveranno alle stesse conclusioni. Nel momento in cui la divisione, l’aggressività, il mancato riconoscimento dell’altro sembrano essere divenuti regole, ci sono coloro i quali ritengono e testimoniano con ciò che fanno ogni giorno la necessità del confronto continuo. Mi pare che sia l’unica importante considerazione da mettere al centro della nostra riflessione. Siamo qua stasera per fare questo: non ci sono aggressioni, che invece stanno diventando anche un po’ patetiche – chi ha poco da dire di solito urla. Abbiamo sentito molte urla e poche parole. Stasera siamo tornati al ragionamento.