“Pdexit”: troppo pochi, troppo tardi

di Maurizio Viroli - Il Fatto Quotidiano - 24/02/2017

“Quando non sai cosa fare, fai quel che devi”. Questa frase che Pier Luigi Bersani ha pronunciato per motivare la sua sofferta scelta di uscire dal Partito democratico, è una delle pochissime affermazioni degne di rispetto e di ammirazione che spicca nel desolante panorama del dibattito politico italiano. Merita rispetto perché chiarisce che decisioni politiche di grande importanza devono essere assunte secondo principi e non secondo interessi personali o di parte. Mi fa piacere render merito a Pier Luigi Bersani perché in passato, quando ha ragionato e agito in maniera completamente opposta, quando cioè ha collocato la ‘lealtà alla ditta’ (parte) al di sopra della Costituzione (principio), l’ho aspramente criticato. Questa volta, giusta la motivazione, giusta la scelta.

Un Pd senza Bersani e senza tutti coloro che già lo hanno seguito e che lo seguiranno, sarà un partito più debole e dunque meno in grado di fare male all’Italia come il Pd renziano ha tentato di fare con la riforma costituzionale e come ha fatto con il Jobs Act, la Buona Scuola, lo Sblocca Italia, l’Italicum e altro ancora.

Antonio Padellaro ha ragione da vendere a ricordare e biasimare la vocazione della sinistra italiana a dividersi, spesso sulla base di calcoli elettorali piuttosto che per ragioni ideali. Nel caso della scissione del Pd, però, non credo si possa parlare di una tipica scissione all’interno della Sinistra, per l’ovvia ragione che questo Pd alleato prima con Berlusconi, poi con Alfano, per non citare l’amoroso sodalizio con Verdini, di sinistra non ha proprio nulla. Si potrebbe forse parlare di scissione per la Sinistra, non della Sinistra.

Il giudizio sulla pericolosità di questo Pd per il bene comune non cambia se il posto di Matteo Renzi (che in questo momento drammatico ha pensato bene di andare a curare i propri interessi in California) lo occuperà Andrea Orlando. Incapace di far passare una legge che cancelli l’infamia della prescrizione, ha però tuonato che è bene legare la figura di Craxi “non soltanto agli errori ma anche a un’idea di innovazione che Craxi propose a un Paese che da molto tempo non vedeva un’idea di trasformazione della politica”. Come può il Guardasigilli chiamare ‘errori’ i comportamenti criminali e la violazione delle leggi? Le ‘idee di innovazione’ sarebbero la spregiudicata brama di potere e la legittimazione della corruzione? Craxi è stato un delinquente, il vero iniziatore dei peggiori mali italiani, colui che ha spalancato le porte a Berlusconi, il propugnatore della ostilità nei confronti dei magistrati che combattono i criminali, recentemente ribadita da Renzi con la vergognosa frase “basta con la barbarie giustizialista”. Un Pd forte con a capo Orlando potrebbe fare ancor più male di quello che ha già fatto il Pd di Renzi.

Diversa considerazione merita la rispettabile scelta di Michele Emiliano: decidere di restare e provare a combattere i gravi mali di questo Pd dall’interno, ammesso che possa vincere il congresso, vorrebbe dire scendere a patti con una forte componente renziana. Ma è bene e giusto, all’interno di un partito, scendere a patti con chi ha progetti politici diametralmente opposti?

Non trovo convincente, se pur nobile, neppure la riflessione di Romano Prodi e degli amici Alessia Mosca e Enrico Letta. Se pur con accenti diversi, tutti e tre sostengono che un Pd forte e rinsaldato in tutte le sue componenti, è necessario per salvare la già debole Europa. A parte che questo Pd da tempo non è più il grande progetto ulivista, il prezzo da pagare sarebbe davvero troppo alto: la devastazione della nostra Repubblica. Credo, inoltre, che il ragionamento da svolgere sia esattamente l’opposto: solo una buona patria italiana, insieme ad altre buone patrie, può contribuire a una buona Europa. Un’Italia devastata non aiuta l’Europa.

L’unico problema, ma è grave, che chi ha lasciato il Pd dovrà affrontare, si può sintetizzare in ‘too little, too late’ (troppo poco, troppo tardi). Troppo poco perché allo stato attuale pare che a uscire non saranno molti; troppo tardi perché avrebbero dovuto uscire il giorno stesso in cui è stata messa ai voti l’oscena Riforma costituzionale Boschi-Renzi-Verdini.

Ha visto bene Pippo Civati che è uscito dal Pd il 6 maggio 2015 dopo aver votato contro il Jobs Act e lo Sblocca Italia, quando misero la fiducia sull’Italicum e la Riforma costituzionale era passata in prima lettura. Se coloro che escono ora fossero usciti allora, si sarebbero presentati all’opinione pubblica con una motivazione fortissima dal punto di vista ideale e politico che avrebbe assicurato loro una bella fetta dei consensi che si sono raggruppati intorno al No. Purtroppo, il tempo in politica è determinante, e può far sì che una scelta giusta si riveli politicamente poco efficace. Ma meglio tardi che mai.

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