Il nostro vicedirettore Marco Lillo è stato perquisito martedì: qualunque supporto informatico nella disponibilità sua o dei suoi congiunti è stato sequestrato dalla Finanza su ordine della Procura di Napoli che cerca le fonti di informazioni coperte da segreto pubblicate dal Fatto e nel libro Di padre in figlio (Paper First). Non è il primo caso e non sarà l’ultimo ma non si può fare. Ne abbiamo parlato con Vladimiro Zagrebelsky, giudice italiano alla Corte europea dei diritti umani dal 2001 al 2010.
Cosa dice la giurisprudenza di Strasburgo delle perquisizioni ai giornalisti alla ricerca delle loro fonti confidenziali, protette dal segreto professionale?
La Corte europea ritiene che la libertà della stampa di informare sui fatti di interesse per la pubblica opinione sia un pilastro delle democrazie e che quindi siano gravissimi i casi in cui quella libertà viene compressa. Condizione essenziale del lavoro dei giornalisti è la protezione delle loro fonti; se la confidenzialità del rapporto tra la fonte e il giornalista non fosse garantita le fonti si esaurirebbero e con esse la stessa possibilità della stampa di svolgere il suo ruolo. Questa è la giurisprudenza costante a partire da una fondamentale sentenza del 1996 (Goodwin c. Regno Unito), ove la Corte ha affermato che il segreto delle fonti può essere forzato dalle autorità pubbliche solo in presenza di un’esigenza preponderante di interesse pubblico. Come sempre nella giurisprudenza della Corte europea, la questione fondamentale è quella della proporzione, in concreto, nel bilanciamento tra l’esercizio di un diritto e le limitazioni possibili. Della proporzione dovrebbero occuparsi anche i magistrati italiani quando applicano la norma del codice di procedura penale (art. 200) che in certi casi consente loro di obbligare i giornalisti a comunicare le fonti. La Convenzione europea dei diritti umani, come si sa, è vincolante.
Quando questi interventi sono legittimi?
La Corte europea ha quasi sempre ritenuto sproporzionati perquisizioni e sequestri di materiali (specie informatici) dei giornalisti. Ma ha ritenuto giustificato l’agire delle autorità in un caso in cui la fonte era manifestamente un appartenente a organizzazioni terroristiche e in un altro in cui l’identificazione della fonte era indispensabile per smantellare una rete di pedofili.
Lillo, non indagato, viene perquisito per scoprire i responsabili di una violazione del segreto d’ufficio. Si può fare?
Il segreto delle fonti non è un privilegio del giornalista, ma un suo dovere professionale. Esso riguarda le fonti lecite come quelle illecite, che violano loro doveri di riserbo. Per esempio, in un caso del 2003 (Ernst c. Belgio), in cui alcuni magistrati erano sospettati di violazione del segreto istruttorio, la perquisizione e i sequestri nei confronti di giornali e giornalisti che avevano pubblicato le notizie sono stati ritenuti sproporzionati e la Corte europea ha ritenuto violata la libertà di espressione. Naturalmente il giudizio sulla necessità e sulla proporzione dell’interferenza statale nella libertà di informazione dipende dai particolari del caso concreto, ma perquisizioni e sequestri nei confronti di giornali e giornalisti non sarebbero giustificati per il solo fatto che essi hanno pubblicato notizie ancora segrete. Operazioni come quella del caso belga, simili per certi versi a quelle disposte dalla Procura di Napoli, sono estremamente pericolose sul piano generale. La Corte europea e tutti gli organismi europei che si occupano di democrazia e libertà di stampa si preoccupano del cosiddetto chilling effect, l’effetto di inibizione che si genera su tutta la professione giornalistica e sulle fonti da cui essa raccoglie le notizie. La questione non riguarda quindi questo o quel giornalista, questo o quel giornale, ma la libertà di stampa nel suo complesso.
Numerose sentenze della Cassazione hanno annullato perquisizioni e sequestri a giornalisti, dal nostro Antonio Massari a Fiorenza Sarzanini e a Sergio Rizzo. Ma è una vittoria morale. Il danno resta gravissimo. Anche per Lillo non c’è rimedio neppure a Strasburgo?
Il danno è compiuto. Le autorità ora conoscono tutta la rete di rapporti del giornalista, anche se nel procedimento penale utilizzeranno solo quello che è utile in quel procedimento. La sicurezza delle (future) fonti risulta non più garantita. Il danno è quindi generale, non riguarda solo il caso specifico. Il giornalista e il giornale possono ottenere un indennizzo, ma non l’eliminazione del danno. Se non lo ottengono in sede nazionale possono ricorrere alla Corte europea dei diritti umani.
E la Corte cosa può fare?
La Corte, se dichiara che c’è stata violazione dell’art. 10 della Convenzione (libertà di espressione) può ordinare un indennizzo economico, ma potrebbe anche indicare al governo che l’articolo 200 Cpp non è adeguato rispetto alle esigenze della Convenzione perché non specifica in quali circostanze il giudice può obbligare il giornalista e non contiene il criterio della proporzione rispetto all’esigenza che spinge a forzare il segreto delle fonti. L’Italia dovrebbe così modificare la legge e prima ancora i magistrati dovrebbero far uso della facoltà riconosciuta dall’art. 200 Cpp con grande cautela e solo quando la necessità di conoscere la fonte sia legata a gravi esigenze – come nei due esempi che ho fatto: fonte terrorista o fonte utile a smantellare rete pedofili – e non sia possibile altrimenti soddisfarla. Ma la Procura di Napoli è andata oltre, con un’operazione che mi pare molto grave.