So ben poco, oltre a quanto ciascuno di noi può desumere da foto,
filmati, reportage e commenti pubblicati da giornali e internet
in questi giorni, o da qualche incontro fortuito, sul movimento
“Fermiamo l’Italia” ovvero “9 dicembre”; ma non mi sento per questo
in una condizione molto diversa da altri commentatori, perché
tutti sono (siamo) stati presi alla sprovvista.
Questa è una rivolta, covata, ma anche preparata e cresciuta per più
di un anno, fuori dal cono di luce dei media. Quanto scrivo non ha
quindi la pretesa di un’analisi di questo movimento. E’ solo un
modesto tentativo di aprire una discussione con qualche lettore di
un’area politica e culturale a cui di fatto appartengo, anche se ne
condivido sempre meno perimetro e impostazioni.
Innanzitutto, non chiamiamoli “Forconi”. Forconi è il simbolo
delle jacqueries di un tempo – un arnese peraltro un po’ attempato,
come lo sono la falce e il martello – ovvero la sigla di una delle
componenti di questo movimento. La maggior parte dei coloro che
partecipano al movimento l’hanno chiamato – e non a caso —
“Fermiamo l’Italia” o “9 dicembre”. Rispettiamone la volontà.
Per mesi si è svolto su riviste e blog di sinistra un dibattito sul
perché in Italia non ci siano stati movimenti di piazza analoghi a
quelli di Grecia, Spagna o Stati uniti, nonostante il nostro paese
sia uno tra i più colpiti dalla crisi, dall’economia del debito e dal
malgoverno.
La risposta più intelligente e completa – ma non per questo la più
convincente – è stata quella del collettivo WuMing: il movimento
Cinque stelle avrebbe di fatto assorbito e incanalato una tensione
prevenendone l’esplosione in piazza.
Adesso eccolo quel movimento! In forme completamente diverse da
quelle che chiunque – e in particolare la cultura della sinistra e
il movimento dei comitati, dei centri sociali e delle
associazioni; ma in gran parte anche il movimento Cinque stelle – se
lo sarebbe potuto o voluto aspettare. Ma prodotto incontestabile
della crisi, dei debiti e del malgoverno. Non è e non sarà la sola
manifestazione di rivolta contro questo stato di cose. Quella
rivolta l’abbiamo già vista, in forme più ordinate e produttive, in
Val di Susa (là dove le “larghe intese” sono state progettate e
sperimentate per imporre il Tav, uno dei più devastanti prodotti a
cui è approdata quella cultura della crescita senza obiettivi che
impronta di sé tutto il pensiero unico); oppure tra i lavoratori e i
cittadini liberi e pensanti di Taranto; o, in forme più conformi a
una visione consolidata del conflitto di classe, tra di dipendenti
dell’Atm di Genova. Ne vedremo altre nei prossimi mesi, compresa
l’evoluzione che assumerà quella di questi giorni, e in forme che non
mancheranno di sorprenderci e — perché no? — di spaventarci. Il
conflitto di classe, diceva un tale a proposito della rivoluzione,
che qui non è all’ordine del giorno, «non è un pranzo di gala».
Cinquant’anni fa, nel 1962, e proprio a Torino, una rivolta di piazza
innescata da una manifestazione indetta dalla Cgil contro la Uil,
(firmataria di un accordo separato con la Fiat per bloccare la
lotta operaia in una fabbrica che era stata per più di un decennio
teatro della più spietata oppressione padronale) era “degenerata”
in quelli che sono passati alla storia come i fatti di Piazza
Statuto. Sorprendendo tutti, perché nessuno se li aspettava; anche
perché ai primi manifestanti si era aggiunta, tenendo la piazza per
alcuni giorni, una folla sterminata di attori di incerta
classificazione sociale: non la classe operaia inquadrata da
sindacati e partiti, ma una folla anonima di operai di piccole e
piccolissime fabbriche, di immigrati e disoccupati, di gente
“senza arte né parte”: subito tacciati come “provocatori” dal Pci,
che pure avrebbe poi dovuto contare tra gli arrestati anche diversi
suoi membri e persino un funzionario. Eppure, a distanza di anni,
gli storici concordano nel vedere in quei moti la scintilla di un
risveglio e la manifestazione di una nuova composizione sociale
che di lì a qualche anno sarebbero stati protagonisti dell’autunno
caldo del ‘69 e delle lotte sociali del ’68 e degli anni Settanta.
Quello che si può dire oggi di questi manifestanti che si dichiarano
“popolo” e che si riconoscono nella bandiera tricolore è che — al
di là dell’indignazione che li accomuna alle manifestazioni di
Grecia, Spagna e Stati uniti, ma anche di Turchia e Brasile, e prima
ancora, di Tunisia ed Egitto, e che in Italia non si erano ancora
viste — è che a venire in primo piano è la loro identità di poveri o di
impoveriti: la manifestazione nuova e dilagante — ma trattata
finora dai media solo con numeri e percentuali – di persone che non
ce la fanno più. E non solo perché sono esasperati (in una maniera o
nell’altra, lo siamo tutti o quasi); ma proprio perché non sanno più
come campare: non hanno più lavoro né impresa (ambulanti,
autotrasportatori e agricoltori sono il cuore della rivolta); né
reddito, né possibilità di studiare, né pensioni sufficienti, né
casa; né, soprattutto, possibilità di intravedere un qualsiasi
futuro diverso dal protrarsi all’infinito di questa loro condizione.
Sono il prodotto maturo della finanziarizzazione e della
globalizzazione dell’economia, di quei poteri che hanno fatto terra
bruciata di tutto quanto ancora esisteva tra la loro nuda vita e il
potere di Stati, istituzioni e capitale; il segno più tangibile del
fatto che «così non si può più andare avanti». Sono l’avanguardia che
lo grida e che lo fa capire a tutti.
Ha indignato molta stampa benpensante – soprattutto di
centro-sinistra – la chiusura forzata, per lo più senza episodi di
violenza, imposta dai manifestanti a negozi e pubblici esercizi.
Ma per chi il conflitto lo deve fare in piazza perché non ha o non ha
più un luogo di lavoro da cui far sentire le sue richieste, quella è
una forma di lotta. Come un picchetto operaio: quello che alcuni
chiamano un’arbitraria limitazione alla libertà di lavorare; ma vai
poi a vedere che cosa succede di quella libertà in una ordinaria
giornata lavorativa, una volta che i cancelli della fabbrica si
sono rinchiusi. L’Ilva non ha insegnato niente?
Scandalo e soprattutto timore anche perché i poliziotti si sono
levati i caschi e hanno deposto gli scudi di fronte ai manifestanti
contro cui si erano scontrati fino a pochi minuti prima. Non è forse
un atto di solidarietà nei loro confronti, preludio – dio non
voglia! – a una diserzione dai loro compiti? Sì; è un atto di
solidarietà e di fratellanza, checché ne dicano i sindacati di
polizia, anche se probabilmente suggerito — o imposto e
concordato con le organizzazioni fasciste che partecipano alle
manifestazioni — dai superiori o dagli alti comandi delle “forze
dell’ordine”. Proprio quei comandanti a cui si rivolge a Grillo,
perché per lui la solidarietà non può nascere da un atto di
ribellione, ma solo dall’obbedienza a un ordine; mentre andrebbe
invece colta l’occasione per dire a quei tutori dell’ordine pubblico:
«la solidarietà che avete manifestato a Torino e a Genova, la
prossima volta datela anche ai NoTav della Valle di Susa. Ne vale la
pena».
La rivolta del 9 dicembre non andrà avanti a tempo indeterminato, ma
nemmeno si dissolverà come neve al sole. Dopo le giornate della
mobilitazione sopraggiungerà il tempo del ripiegamento e della
riflessione. E’ quello in cui potrà diventare possibile
avvicinarsi ai suoi protagonisti non solo con una presenza in
piazza, ma anche e soprattutto attraverso un confronto e uno sforzo
condiviso per enucleare obiettivi e rivendicazioni comuni.
Le forme assunte da questa mobilitazione, che non è spontanea ma
neanche frutto di una precisa organizzazione, ci possono far
capire quanto distino le forme reali della partecipazione dalle
forme strutturate della democrazia: quella rappresentativa dei
Parlamenti e dei consigli comunali o regionali, ma anche quella
partecipativa, di una gestione condivisa ben organizzata di
rivendicazioni o di “beni comuni”. Non che vadano messe in
contrapposizione; ma certo avvicinarle non è un processo né
automatico né facile.
Altrettanto significativa è la dissoluzione, in questo ambito,
delle tradizionali contrapposizioni tra destra e sinistra. Non
che ciò debba significare mischiarsi e confondersi con le
organizzazioni fasciste che a questi moti, o alla loro
preparazione, hanno preso parte. Quelle organizzazioni sono
radicate anche, e ben di più, nelle destre fasciste e naziste più
tradizionali, con cui nessuna commistione è possibile. Ma per la
maggioranza di coloro che partecipano a questi moti destra e
sinistra, come pure politica, se non nell’accezione più pura di
autogoverno, non hanno più alcun significato. Contano le
distinzioni tra alto e basso, onesto e ladro, povero e ricco,
sfruttato e sfruttatore. Impariamo a riusarle.
Per la maggioranza di coloro che partecipano a questi moti destra e sinistra, come pure politica, non hanno più alcun significato. Contano le distinzioni tra alto e basso, onesto e ladro, povero e ricco, sfruttato e sfruttatore. Impariamo a riusarle.