Per le riforme si avvicina il momento della verità. La
presidente Finocchiaro dichiara inammissibili gli emendamenti
all’art. 2 volti a ripristinare l’elezione diretta dei senatori.
Renzi comanda che il disegno di legge sia approvato entro il 15
ottobre e diffida Grasso a non mollare. Grasso stizzito rivendica
a se stesso la decisione in Aula sugli emendamenti, senza in alcun
modo anticiparla e lasciando quindi la porta aperta ai voleri
renziani. La conferenza dei capigruppo rinvia tutto all’Aula
a rotta di collo. Intanto, la minoranza Pd abbandona il tavolo della
mediazione, finita su un “binario morto”.
Un copione in larga misura già scritto. In fondo, l’unico punto di
ambiguità era dato proprio dalla scelta dei dissenzienti Pd di
calarsi in una trattativa semi-segreta tutta interna al partito.
Palesemente, non era nel loro interesse farsi ingabbiare. Al
contrario, il loro interesse era ed è scendere in campo per una
battaglia aperta e visibile in nome di una pubblica opinione
largamente favorevole. I sondaggi ci dicono che per il 70% degli
italiani i senatori dovrebbero essere eletti direttamente.
Qui la forza della minoranza Pd oggi, ed anche la speranza di
sopravvivenza politica domani. Disperdere questa risorsa in una
trattativa invisibile in oscure sedi partitiche è comunque
sbagliato. Qualunque esito verrebbe letto come bassa cucina
sorretta da futili se non abietti motivi. Non si può dire al popolo
italiano che la Costituzione si scrive guardando agli interessi
della ditta o, ancor peggio, a quelli personali.
Se la minoranza Pd abbia numeri sufficienti a bloccare la riforma si
vedrà. Ma intanto la drammatizzazione dello scontro da essa
provocato ha contribuito a richiamare sul tema l’attenzione della
opinione pubblica, tanto da giustificare sondaggi che
evidenziano un vasto dissenso popolare verso la proposta del
governo. La questione non è banale, perché mostra il fallimento di
una strategia di comunicazione fondata su argomenti in parte
tecnicamente mendaci — ad esempio, che il senato non elettivo sia
necessario per superare il bicameralismo paritario — e in parte
risibili — come il risparmio di spesa, ridotto a spiccioli. Non sono
bastati i tweet, gli attacchi ai gufi, le arroganti intemperanze
verbali di Renzi. È stato colto invece il punto centrale: che in
democrazia la scelta di chi ci rappresenta è un passaggio
cruciale. Comitati e movimenti che già si organizzano nella
prospettiva del referendum devono trarne la conferma che il campo
di battaglia sarà la riduzione degli spazi di partecipazione
democratica.
I sondaggi lasciano i favorevoli al senato dei nominati a circa il
30%. Più o meno quella che sarebbe oggi la forza parlamentare del Pd
senza la gruccia del premio di maggioranza. Il che ancora una volta
dimostra come sia stato e sia inaccettabile porre una riforma
stravolgente nelle mani di un parlamento fondato sui numeri
illegittimi di una legge elettorale incostituzionale proprio
nel premio. E ribadisce altresì l’incultura costituzionale del
premier, che vorrebbe dare agli italiani una Costituzione verso la
quale il paese in larga maggioranza dissente in un punto fondativo.
E per di più vuole darla con una maggioranza raccogliticcia,
approfittando dell’acquiescenza di assemblee snervate da tre turni
di Porcellum e affollate di anime morte, e per di più con il
sostegno decisivo di voltagabbana e trasformisti. Una
indecenza, per chi crede nella politica, nella Costituzione, nella
Repubblica.
Qualcuno dirà che la riforma contiene anche altro. È vero. Ma della
sorte del Cnel gli italiani felicemente non si curano. E nemmeno
dei mal di pancia delle regioni, che non pochi considerano luoghi
di nequizie e malaffare. Del resto, non è stato lo stesso Renzi
a presentare il senato non elettivo come la madre di tutte le
battaglie? Lo ha fatto non certo per una Costituzione migliore e per
elevate considerazioni di filosofia istituzionale, ma per
lucrare sull’argomento populistico dei tagli di spesa. Una scommessa
sbagliata.
È importante che si vada a una battaglia aperta e visibile per
l’opinione pubblica. Era ed è possibile aprire sulla ammissibilità
di emendamenti all’art. 2, come abbiamo argomentato io e Besostri
nella audizione presso la Commissione Affari costituzionali del
Senato il 27 luglio. La Finocchiaro poteva, volendo, decidere
diversamente. Così potrà fare Grasso, se vorrà. Che ognuno si assuma
le proprie responsabilità. Una lettura notarile di regole e prassi
può condurre a conclusione diversa. Ma che porti a una
Costituzione forte e duratura, nella quale il paese sì riconosca,
si deve escludere. Né servono a tal fine le vie traverse volte a un
senato un poco elettivo, ma senza esagerare, ad esempio lasciando al
legislatore regionale il compito di assicurare in qualche forma
la partecipazione degli elettori alla scelta dei senatori. Una
proposta in tal senso viene da “ASTRID” (l’Associazione presieduta
da Bassanini), con un documento sul quale mi sono trovato ad
esprimere un dissenso solitario. Per me, eleggere un
parlamentare significa scrivere un nome su una scheda da mettere
nell’urna, senza se e senza ma. Un gesto elementare, ma fulcro della
democrazia. Chi ne ha paura?