“Correva l’anno 1972 e il manifesto, che oltre a essere un giornale era
un gruppo politico, correva alle elezioni. Con la parola d’ordine
semplice semplice «Vota manifesto, libera Valpreda» riempivamo le piazze
e scaldavamo i cuori” (il manifesto Sardo, 11 aprile 2008). Oggi
pochissimi si ricordano di quella battaglia politica solitaria che portò
un gruppo politico a candidare come capolista in tre circoscrizioni un
personaggio in carcerazione preventiva, imputato nientedimeno che di
strage.
Indubbiamente la candidatura di Valpreda fu un atto di sfida alla
legalità materiale dell’epoca e di sfiducia verso il sistema giudiziario
che, accecato da prove manipolate, era stato orientato a perseguire
una falsa pista anarchica per addossare la responsabilità della strage
di Piazza Fontana (12/12/1969) ai movimenti di protesta del 68 e
giustificare così una svolta autoritaria, che non ci fu.
Ad impedirla furono le resistenze sotterranee in seno al partito di
governo e l’accresciuta capacità dell’Autorità giudiziaria di esercitare
in modo indipendente il controllo di legalità. I magistrati non
tardarono a scoprire che dietro la strategia della tensione c’era
l’impronta di gruppi terroristi di estrema destra, fortemente protetti
dai servizi segreti e, dopo una serie di processi, Valpreda fu liberato e
scagionato da ogni accusa. La liberazione di Valpreda fu effetto della
giurisdizione, non della politica.
Oggi, a quarantadue anni di distanza, si ripropone un’altra sfida
politica alla legalità ed alla giurisdizione, attraverso la pretesa di
candidare alle elezioni europee un pregiudicato doppiamente
incandidabile, sia in virtù della legge Severino contro la corruzione,
sia perchè interdetto dai pubblici uffici.
Tuttavia, a ben vedere, la sfida politica alla legalità, lanciata con la
pretesa candidatura di Silvio Berlusconi alle Elezioni Europee, non ha
niente a che vedere con la campagna per eleggere Valpreda. La battaglia
politica per Valpreda libero rientrava in una aspra lotta volta a
disvelare le trame che asfissiavano la Repubblica e ricondurre
l’esercizio dei poteri nel quadro della legalità costituzionale;
certamente non si poneva l’obiettivo di rivendicare l’impunità per gli
anarchici o di addomesticare la magistratura.
Piuttosto, per trovare gli antecedenti della battaglia all’ultimo sangue
combattuta da Silvio Berlusconi contro l’esercizio della giurisdizione
nei suoi confronti e per sfuggire alle conseguenze delle sue condanne
dobbiamo ritornare agli anni 80, all’epoca del terrorismo.
Gli uomini delle brigate rosse e di altri gruppi terroristici
contestavano la giurisdizione e si dichiaravano “prigionieri politici”,
rivendicando l’impunità per i loro delitti rivoluzionari e disconoscendo
il potere dei giudici di giudicarli.
Oggi la campagna per la libertà di Berlusconi utilizza lo stesso
discorso eversivo di delegittimazione della giurisdizione dello Stato
democratico.
Senonchè le vicende tragiche della storia, quando si ripetono, si
trasformano inevitabilmente in farsa! Se la rivendicazione di impunità
degli uomini delle brigate rosse si stagliava sullo sfondo della
tragedia del terrorismo, che per lunghi anni ha insanguinato la vita
repubblicana, la rinnovata rivendicazione di impunità del “prigioniero
politico” Berlusconi, interdetto dai pubblici uffici ed alle soglie di
una condanna da scontare, è l’ultimo atto della farsa di un potere
politico-economico-finanziario che ha costruito un’immagine mitica di
Silvio Berlusconi, rovesciando la realtà nel suo contrario,
trasformando i guardiani delle regole in filibustieri ed i filibustieri
in perseguitati in lotta per la libertà.
Adesso l’ultima battaglia dell’armata di Silvio è affidata alla
divisione Santanchè, che chiama il popolo a schierarsi con il caro
leader per ingaggiare con il Capo dello Stato l’ultimo braccio di ferro
che ha per oggetto l’impunità del leader attraverso la grazia e la
neutralizzazione del controllo di legalità.
Riusciranno i nostri eroi a salvare il “prigioniero politico” Silvio Berlusconi?
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