In un’Unione malata, divisa, minacciata da povertà e diseguaglianze crescenti, le proposte avanzate dal governo greco dopo le elezioni del 25 gennaio andrebbero attentamente esaminate e discusse: tra i 28 Stati membri, tra i 19 governi dell’Eurozona e nella Commissione, nel Parlamento europeo, nella Banca centrale europea. Le risposte fin qui date ad Atene sono non soltanto ingiuste e in alcuni casi pericolosamente antidemocratiche, ma del tutto controproducenti. La possibilità di cambiare radicalmente rotta, nell’amministrazione della crisi e nei programmi di austerità, viene esclusa a priori. La domanda stessa formulata dal governo Tsipras – non una cancellazione del debito ma un negoziato sulle modalità dei rimborsi e un aggancio di questi alla crescita – viene arbitrariamente travisata, demonizzata e rigettata. Vince l’autocompiacimento della fede, contro i fatti e l’evidenza dei fatti. La malattia, non curata, coscientemente la si vuol perpetuare.
Per
questo c’è da allarmarsi, quando i governi (e in primis il governo
tedesco) lasciano sola la Banca centrale europea, con le uniche risposte
tecniche che le sono consentite, a sciogliere nodi che essendo
eminentemente politici non le spettano. Sola, ad annunciare che non
accetterà più i titoli di Stato ellenici, e a dare alla Grecia pochi
giorni di tempo per rientrare nei ranghi e obbedire alle direttive
impartite a suo tempo dalla troika (la Bce lascia tuttavia una porta
aperta: la possibilità di erogare liquidità d’emergenza attraverso
l’Ela). Vuol dire che la richiesta di studiare il piano ellenico di
rientro dal debito non sarà neppure presa in considerazione. Che al
governo greco è vietato fronteggiare l’emergenza umanitaria con aumenti
del reddito minimo, con la restaurazione di servizi pubblici basilari
nell’istruzione e nella sanità, con nuovi investimenti, con tasse
patrimoniali. Vuol
dire che non si discuterà del Piano Marshall – ben più consistente del
Piano Juncker – che il ministro del Tesoro Yanis Varoufakis ha proposto
al governo Merkel, chiedendogli di divenire l’“egemone” di un’Europa da
guarire e rifondare. Vuol dire che l’Europa così com’è non è considerata
affetta da una crisi sistemica tale da mettere in questione non qualche
Stato indebitato, ma l’intera architettura dell’unione monetaria.
Significa infine chiudere gli occhi di fronte all’essenziale: il divario
che va estendendosi fra la sovranità dei cittadini, iscritta
nelle singole costituzioni, e quello che un’élite decide al loro posto.
Il fastidio è palpabile e diffuso, verso il tribunale democratico che
sono le elezioni. Personalmente non auspico il ritorno delle banche
centrali nelle mani degli Stati, né la fine dell’indipendenza
dell’istituto di emissione. Ritengo che tale indipendenza rappresenti
non un ostacolo, ma una precondizione perché il pubblico interesse sia
almeno parzialmentetutelato
dall’intrusione imprevedibile e infida dei mercati, delle lobby, delle
forze politiche di questo o quello Stato. La vera insidia non è
racchiusa nell’indipendenza della Banca centrale, ma nella sua eccessiva
solitudine. Un comune istituto di emissione senza Europa politica sarà
per forza di cose accusato di ingerenza e prepotenza. La banca centrale
è, e deve rimanere, un’istituzione con compiti limitati; non può colmare
le lacune della politica. Tuttavia, deve essere più che mai consapevole
delle speciali difficoltà e responsabilità che derivano dall’anomalia
di una moneta senza Stato.
UNA MONETA è legittimata se costituisce lo strumento di pagamento e di scambio di un territorio dotato di un governo, di un sovrano politico: in democrazia, un sovrano legittimato dalle urne. Se l’euro non è legittimato, è appunto perché continua a essere una moneta senza Stato. Contrapporre le riforme strutturali dell’eurozona al ver- IL DEBITO PUBBLICO 141,8 mld arrivano dal fondo salva Stati, 27 dalla Bce, 52,9 dai governi, 25 dal Fmi detto delle urne, affermare che le elezioni democratiche non hanno effetto alcuno sugli accordi di gestione della crisi che hanno prodotto disastri umanitari in uno Stato membro è una regressione gravissima. Questa regressione è in atto da molti anni: perdono peso le Costituzioni, i Parlamenti, gli appuntamenti elettorali. La crisi economica che traversiamo è sfociata in crisi delle democrazie. Cresce la propensione a ripetere errori del passato, precipitando un popolo nell’umiliazione: tende a ripeterli proprio Berlino, che sperimentò tale umiliazione dopo la Prima guerra mondiale. Continuare a ripetere che “l’euro è irreversibile” non ha più senso. È un sotterfugio performativo, che appartiene alla sfera del pensiero magico e non ha nulla a che vedere con la realtà e con la sua possibile evoluzione. Nessuna conquista politica o sociale è irreversibile. Non dobbiamo andare molto indietro nella storia per sapere che la nostra civiltà è, come tutte le altre, mortale.