“Il
lavoro quindi non è l’unica fonte dei valori d’uso che esso
produce, della ricchezza materiale. Esso ne è il padre e la terra ne
è la madre. Come dice William Petty”. Karl Marx, Le Capital
[1867], in Œuvres, tome I, Gallimard, Paris, 1965.
Lo
sapevate? I servizi resi dai pipistrelli negli Stati Uniti valgono
22,9 miliardi di dollari l’anno. Come si arriva a questa bella
sommetta? Valutando la quantità d’insetticidi che essi permettono
di economizzare, distruggendo gli insetti nocivi. I servizi resi
dagli insetti impollinatori rappresentano, da parte loro, 190
miliardi all’anno, dei quali 153 dalle sole api. Quanto al valore
della fotosintesi operata dalla foresta in Francia, è stimato al
prezzo di mercato della tonnellata di carbone (1).
Da dove
viene questa pratica che consiste nell’attribuire alla Natura un
valore economico basato sull’utilizzo dei suoi benefici a favore
dell’uomo? Il degrado dell’ambiente e l’esaurimento delle
risorse hanno raggiunto un punto tale che gli economisti liberisti,
colti dal panico di fronte all’entità del disastro e presi da
nuovo zelo, intendono introdurre nei modelli neoclassici il dato
ambientale, che fino a poco tempo fa avevano completamente ignorato,
perché la Natura era stata dichiarata inesauribile.
La crisi
del capitalismo globalizzato è passata da lì. Lungi dall’essere
una questione di congiuntura, essa affonda le sue radici nelle
contraddizioni sociali ed ecologiche spinte all’estremo limite
nella fase neoliberista. Da una parte, la svalutazione della
forza-lavoro rispetto alla sua produttività provoca una situazione
di sovrapproduzione in gran parte dei settori industriali. Le classi
abbienti malgrado ciò si arricchiscono in misura scandalosa, grazie
agli sgravi fiscali di cui beneficiano e ai loro esorbitanti redditi
finanziari. Ne consegue disoccupazione endemica, precarietà,
diminuzione della protezione sociale e crescente disuguaglianza.
Dall’altra parte, l’accumulazione infinita del capitale preme sui
limiti del Pianeta: minaccia l’equilibrio degli ecosistemi,
esaurisce una grande quantità di risorse naturali, impoverisce la
biodiversità, causa inquinamenti multipli e sconvolge il clima.
Da
queste due serie di contraddizioni nascono la difficoltà e, a un
certo punto, l’impossibilità d’imporre alla forza-lavoro di
produrre sempre più valore economico e di monetizzarlo sul mercato.
Con altre parole il capitalismo non può andare di là di un certo
limite di sfruttamento dell’essere umano senza mandare in rovina le
sue possibilità d’espansione e non può nemmeno superare una certa
soglia nello sfruttare la natura, senza deteriorare o distruggere la
base materiale dell’accumulazione. Con la crisi finanziaria
apertasi nel 2007 svanisce l’illusione che la finanza avrebbe
potuto liberarsi dalla costrizione sociale e materiale e diventare
una fonte di valore endogena e autosufficiente. Queste due
costrizioni sono insuperabili.
La
trama, smagliata, della vita
In
questo contesto di globalizzazione e di crisi del capitale due
importanti trasformazioni hanno contribuito a riaprire la discussione
teorica sulla ricchezza e il valore. L’una conduce alla
generalizzazione su scala planetaria di un modo di sviluppo
produttivistico devastante. L’altra riguarda lo spazio sempre più
vasto delle conoscenze nel processo produttivo.
Due fenomeni,
due domande: che tipo di ricchezza è messa a repentaglio nel primo
caso? E in che cosa è modificata la fonte del valore nel
secondo?
La strumentalizzazione della natura è diventata tale
che, perfino entro la corrente dominante neoclassica, gli economisti
si sono messi a difendere l’ambiente, considerato come un «capitale
naturale». La «valorizzazione di ciò che vive», il «valore
economico intrinseco della natura» e il «valore dei servizi resi
dalla natura» sono oggetto di studio prioritario da parte della
Banca Mondiale, del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente
(PNUA), dell’Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico
(OCSE), dell’Unione Europea, ecc.
Tutti credono sia
possibile sommare elementi la cui misura dipende dai costi della
produzione realizzata dall’uomo, come anche da elementi che non
sono prodotti e che inoltre si riferiscono alla qualità o a valori
etici non valutabili. Se tutto è valutato economicamente, tutto può
essere considerato come capitale. Gli economisti neoclassici
definiscono allora la ricchezza come la somma di ciò che essi
chiamano capitale economico, capitale umano, capitale sociale e
capitale naturale, che tutti derivano da un’analoga procedura di
calcolo.
Cosa ancor più grave, quest’analisi non può
tenere conto del metabolismo interno agli ecosistemi naturali.
Isolando ogni elemento per calcolarne il costo, il prezzo, perfino
l’utilità, essa non ne può afferrare il più importante: le
interazioni che costituiscono la trama della vita e la cui
preservazione condiziona la sua riproduzione.
Quest’
approccio è stato inaugurato nel 1997 con lo studio diretto dallo
specialista dell’ambiente Robert Costanza: i servizi resi dalla
Natura rappresentavano allora fra 16.000 e 54.000 miliardi di
dollari, quotazione 1994 (2). In seguito gli studi si sono
moltiplicati. Ma il prezzo sulla stima del quale è valutata, per
esempio, la foresta della Francia costituisce una categoria
intrinseca alla sfera finanziaria, caratterizzata dalla volatilità e
dalla speculazione; nella sfera naturale non esiste. Quindi non vi è
unità di misura che sia comune alle due sfere. L’economia e la
natura sono incommensurabili.
Così conviene riallacciarsi
alla distinzione di Aristotele, Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx
fra valore d’uso e valore di scambio, per dire che le risorse
naturali sono una ricchezza, ma senza valore economico intrinseco, e
che la Natura è indispensabile a tutta la produzione di valore
economico, che proviene solamente dal lavoro umano. In breve, la
parte di ricchezza che proviene dalla Natura non è in sé un valore
economico, perché questa categoria è sociale e non naturale. Se per
mettere in moto una strategia di sostenibilità dello sviluppo si
attribuisce un prezzo a questo o a quel bene naturale, questo avrà
una condizione di prezzo politico e non economico, fissato al livello
della norma ecologica che si è scelto di rispettare.
Il
valore del complesso di risorse naturali non si può stimare in
termini economici – vale a dire è infinito, perché le risorse
naturali condizionano la vita della specie umana. Perciò essa non
può essere ridotta a una categoria economica. Di contro, la misura
del valore economico creato dallo sfruttamento di queste risorse può
essere ridotto al lavoro, ma non ha nulla a che vedere con uno pseudo
valore economico intrinseco alle risorse. Si tratta di un paradosso
incomprensibile al di fuori dall’economia politica e dalla sua
critica marxista. Senza la natura l’uomo non può produrre nulla,
né in termini fisici, né in termini di valore economico. L’attività
economica si inserisce inevitabilmente nei rapporti sociali e nella
biosfera. Non si può quindi fare a meno della Natura per produrre
collettivamente valori d’uso e non si può sostituirla
indefinitamente con manufatti. Ma non è la Natura che produce
valore, categoria socio-antropologica per definizione.
D’altra
parte, la rivoluzione delle tecniche dell’informazione e della
comunicazione integra le conoscenze come fattore decisivo della
creazione di ricchezza. Così nasce e si sviluppa un capitalismo
qualificato come «cognitivo», o di «economia della conoscenza», o
di «economia dell’informazione» o ancora come «economia
dell’immateriale», che prende slancio dall’antico capitalismo
fordista dell’industria di massa del dopoguerra (3). L’evoluzione
sarebbe tale da condurre progressivamente sia a eliminare il lavoro
come fonte del valore, secondo alcuni, sia a inglobarvi tutti gli
istanti della vita, secondo altri. In ogni caso, questa evoluzione
obbligherebbe ad abbandonare la legge marxista del valore, detta del
«valore-lavoro», che avrebbe avuto il suo apogeo nell’epoca del
fordismo.
Ormai il lavoro non produrrebbe più il valore, che
«si forma principalmente nella circolazione (4)» del capitale. La
sola via d’uscita sarebbe di guidare la trasformazione del
capitalismo, che promette a ogni lavoratore la possibilità di
«produrre sé stesso» e, simultaneamente, di versare un reddito di
sopravvivenza a tutti coloro che il sistema mette comunque in
disparte, invece di volere un pieno impiego ormai definitivamente
fuori dalle previsioni e soprattutto contrario all’obiettivo
dell’emancipazione dal lavoro.
Tuttavia questa tesi del
capitalismo cognitivo solleva numerosi interrogativi. Il più
importante conduce alla distinzione fra ricchezza e valore, o fra
valore d’uso e valore di scambio. A mano a mano che aumenta la
produttività del lavoro e diminuisce il lavoro che Mrax chiama
«vivo» - e per lui si tratta di una «affermazione tautologica (5)»
- il valore di scambio delle merci regredisce anch’esso, in
conformità alla legge del valore. Così s’instaura un distacco
sempre più grande fra il lavoro e le ricchezze create, vale a dire
fra il lavoro e i valori d’uso, senza che ciò significhi un
distacco fra lavoro e valore di scambio.
La nuova
contraddizione del capitalismo è di voler trasformare la conoscenza
in capitale da valorizzare. Due ostacoli almeno sorgono dinanzi a
quest’ assunto. Il primo è il carattere difficilmente
appropriabile della conoscenza in sé, poiché essa nasce dallo
spirito umano e non può esserne tolta. Soltanto l’uso della
conoscenza è facilmente appropriabile e il brevetto lo segna con la
sua esclusiva o lo sottopone al pagamento di una rendita. Al di fuori
da questo caso la conoscenza è un bene collettivo o comune per
eccellenza, addirittura nel senso in cui lo definiscono gli
economisti neoclassici: essa soddisfa le regole di non esclusione
(non si può, per esempio, escludere chiunque dall’uso
dell’illuminazione notturna delle strade) e di non-rivalità (l’uso
da parte di qualcuno non impedisce l’uso da parte di qualcun
altro).
Il secondo ostacolo all’appropriazione delle
conoscenze da parte del capitale è il rischio che ciò fa correre
alla loro diffusione e alla loro estensione. La socializzazione della
produzione e della trasmissione delle conoscenze entra in
contraddizione con la loro appropriazione privata. Questa
contraddizione sta al centro della crisi del capitalismo
contemporaneo, che ha difficoltà nel fare funzionare il sapere come
capitale, ossia nel farne oggetto di profitto. Essi vi si dedica, ma
non può per questo fare a meno della forza-lavoro che porta il
sapere.
Dal momento in cui si riconosce che è possibile
decidere un prezzo che sfugge all’obbligo di procurare una
redditività sufficiente al capitale per rispettare una norma d’altra
natura, si entra in un registro che, pur essendo monetario, diventa
non commerciale. A questo proposito la produzione di servizi non
commerciali, come l’educazione e la sanità pubblica, deve essere
considerata come risultato di un lavoro produttivo di persone
assegnate a questi compiti (6). La ricchezza non commerciale non è
quindi un prelievo sull’attività commerciale: è un di più
proveniente da una decisione pubblica di utilizzare a fini non
lucrativi le forze-lavoro e le attrezzature e risorse disponibili.
Essa è socializzata a doppio titolo: dalla decisione di utilizzare
collettivamente le capacità produttive e da quella di ripartire
socialmente il carico dei costi, attraverso le imposte.
La
teoria liberale confonde ricchezza e valore e tende a ridurre ogni
valore a quello destinato al capitale. Da un lato, il valore della
produzione commerciale resta governato dal lavoro necessario, che è
convalidato dal mercato. Ma, dall’altro, il riconoscimento del
carattere produttivo del lavoro effettuato nella sfera non
commerciale partecipa alla ridefinizione della ricchezza e del
valore, indispensabile per contenere il processo di
commercializzazione della società.
Questo lavoro risponde a
bisogni sociali fuori dal campo delle merci; contribuisce inoltre al
benessere, quest’altra specie di ricchezza che supera il quadro del
valore in senso economico. A questa stregua la ricchezza socializzata
non è meno ricchezza di quella privata; al contrario. Limitare lo
spazio delle merci rende possibile l’allargamento di quello della
gratuità costruita in senso sociale, ovvero delle attività umane
che, benché abbiano un costo, non hanno prezzo nel senso del
mercato. Questo permette infine di preservare i beni naturali e i
legami sociali i quali, da parte loro, sono inestimabili.
(1)
Cf. Annabelle Berger et Jean-Luc Peyron, « Les multiples valeurs de
la forêt française », Institut français de l’environnement
(IFEN), Les Données de l’environnement, n o 105, Orléans, août
2005.
(2) Robert Costanza (sous la dir. de), «The value of the
world’s ecosystem services and natural capital », Nature, vol.
387, n o 6630, Londres, 15 mai 1977.
(3) Christian Azaïs,
Antonella Corsani et Patrick Dieuaide (sous la dir. de), Vers un
capitalisme cognitif. Entre mutations du travail et territoires,
L’Harmattan, Paris, 2000 ; Michael Hardt et Antonio Negri, Empire,
Exils, Paris, 2000 ; André Gorz, L’Immatériel. Connaissance,
valeur et capital, Galilée, Paris, 2003.
(4) Yann Moulier
Boutang, L’Abeille et l’Economiste, Carnets Nord, Paris, 2010.
(5) Karl Marx, Manuscrits de 1857-1858. Grundrisse, tome II,
Editions sociales, Paris, 1980.
(6) Lire « Les vertus oubliées
de l’activité non marchande », Le Monde diplomatique, novembre
2008.
Con una totale capacità di recupero il capitalismo cerca di appropriarsi delle conoscenze e di ampliare i limiti dello sfruttamento della natura. Un credo: tutto si può trasformare in moneta. Così alcuni economisti hanno calcolato che i «servizi resi dalla Natura» valevano fra i 16.000 e i 54.000 miliardi di dollari all’anno. Essi confondono valore e ricchezza