Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando.
È mera rappresentazione. In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.
Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando. È mera rappresentazione.
In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.
E possiamo stabilire un assioma: chi controlla la maggioranza controlla il Parlamento. Quindi la domanda vera è: le riforme messe in campo sono costruite in modo tale da consegnare a qualcuno il controllo della maggioranza?
La risposta è certamente sì, ma non si trova solo nella riforma costituzionale. Bisogna guardare anche ad altro. È a tutti chiaro che per l’Italicum un singolo partito vincente avrà 340 seggi nella Camera dei deputati, la sola camera politica. Ma chi saranno i prescelti? E sarà possibile al premier imbottire l’assemblea con i suoi fedelissimi? In specie se è anche segretario del partito?
La risposta è ancora sì. L’Italicum si articola in 100 collegi plurinominali, che cioè eleggono più di un candidato. In ciascun collegio i partiti presentano una lista di pochi nomi: collegi piccoli, liste corte, che, si dice, servono a far conoscere i candidati e a favorire la scelta da parte degli elettori. Ma sono anche utili a predeterminare gli esiti elettorali da parte di chi forma le liste: primo fra tutti, il premier-segretario.
Dai collegi dovranno uscire i 340 nomi garantiti dal premio di maggioranza al partito vincente. Ma intanto dobbiamo ricordare che i capilista sono votati insieme alla lista. Per semplicità potremo dire che sono i primi cento che il premier porta a casa, perché certamente nella posizione blindata di capolista a voto bloccato metterà una persona sua, che sarà eletta. Poi per il partito vincente risulterà eletto nel collegio un altro deputato, o più, in base alle preferenze. Essendo pochi i candidati, un’accorta formazione della lista consentirà al premier di mettere nel collegio un paio di candidati a lui vicini, forti e capaci di attrarre preferenze. Completando poi la lista con donatori di sangue che portano voti alla lista, ma non in misura tale da risultare vincenti nelle preferenze: lo studente universitario, la mamma di famiglia, magari persino l’operaio. È la tecnica ben nota di presentare con alcune candidature forti altre volutamente deboli, che non disturbino i candidati veri. Tecnica favorita dalla possibilità di candidare i capilista in più collegi, fino a un massimo di dieci.
La leadership del partito vincente potrà decidere nei collegi non solo il pacchetto dei capilista, ma anche un pacchetto di seconde e terze candidature ad alta probabilità di successo. In tal modo il premier segretario che ha l’ultima parola sulle liste potrà assicurarsi la fedeltà di larghissima parte della rappresentanza parlamentare. Qualcuno sfuggirà, ma senza impedire una solida maggioranza nel gruppo parlamentare. La disciplina di gruppo – unitamente a quella di partito – può mettere ai margini ogni forma di dissenso sopravvissuta alla pulizia etnica praticata con le liste.
In questo scenario, il premier segretario può determinare la scelta
del presidente dell’Assemblea, quella del capogruppo e dei presidenti di
commissione, e dirigere per interposta persona la conferenza dei
capigruppo e l’ufficio di presidenza dell’Assemblea. Sono gli snodi
cruciali della decisione parlamentare. Può altresì incidere
sull’elezione degli organi di garanzia, a partire da quella del Capo
dello Stato, dei giudici della Corte costituzionale, di componenti di
autorità.
Inoltre, Renzi dice il vero quando ricorda che è il Capo dello Stato a
nominare il primo ministro. Ma chi potrebbe mai nominare se non la
persona sostenuta dai 340 blindati dal premio? Nessun altro otterrebbe
la fiducia. Ancora, è ben vero che il premier non può direttamente
revocare un ministro riottoso. Ma può far votare una sfiducia
individuale (ex art. 115 reg. Cam), obbligandolo alle dimissioni. È ben
vero che non può sciogliere anticipatamente la Camera. Ma può
determinare una impossibilità di funzionamento che costringa il Capo
dello Stato a sciogliere: ad esempio con dimissioni cui segua una crisi
di governo irrisolvibile per mancanza di una maggioranza alternativa. In
più, la riforma offre uno strumento di diretto controllo dell’agenda
parlamentare con il voto a data certa su richiesta del governo. Decide
l’Assemblea. Ma potrebbe mai decidere contro il volere dei 340?
Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta che traduce quel potere nell’istituzione è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio. La battaglia sul referendum costituzionale è pensata per colpire l’immaginario collettivo con slogan populistici di facile presa. Ma è piuttosto l’Italicum l’architrave del potere nel Renzi-pensiero. Che il premier possa addivenire a modifiche sostanziali è l’ultima illusione della minoranza Pd.