Come cambia la democrazia è come cambia la Costituzione, perché, nella magistrale definizione della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, “la società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione”.
L’argomento maggiormente speso per rassicurare sulla riforma costituzionale in atto è che essa neppur minimamente tocca la prima parte, quella dei diritti, che motiva la retorica da palcoscenico della “Costituzione più bella del mondo”. In realtà, la parte dei diritti non c’è bisogno, né possibilità, di toccarla perché da tempo non è più nelle nostre mani, nella disponibilità legislativa del nostro Parlamento – come di ogni Parlamento nazionale. Sta nelle mani di forze globali, transnazionali, nel potere economico-finanziario che si esprime nel FMI, nel G8, nella BCE, nella Commissione europea e, a livello non istituzionale, nelle società multinazionali. Nel campo dei diritti fondamentali la lex superior non è più la Costituzione, è la lex mercatoria, formata dai mercati finanziari. Ad essa è ormai sottordinato il titolo III della Costituzione sui rapporti economici: l’art. 36 sulla retribuzione tale “in ogni caso da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” è di fatto modificato dal precariato, partite iva, voucher…; l’art. 41 sul non contrasto dell’iniziativa economica con l’utilità sociale e con la sicurezza e la dignità umana è ormai in crisi e tanto più lo sarà, per esempio, con trattati come il TTIP, che mette a repentaglio il controllo governativo dei mercati, limitando la sovranità legislativa dei paesi europei in caso di “perdita di profitto” delle imprese. Ma sotto tiro è anche il titolo I della Costituzione sui rapporti civili: la giusta preoccupazione per il ripetersi dei sanguinosi attacchi terroristici motiva, come di recente, direttive europee sull’adozione di misure di controllo della libertà di espressione per evitarne effetti giustificatori o glorificatori, rimuovendo o bloccando l’accesso alle pagine web; una recente sentenza della Corte di giustizia (sul caso Taricco) bypassa il principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25: benchè sia stata perciò sollevata una questione di costituzionalità).
Insomma la modifica della prima parte della Costituzione, come avvertono sulla loro pelle soprattutto i soggetti deboli della società, sta avvenendo da tempo sia pure in forma strisciante. Il problema diventa allora quello di modificare la seconda parte per adattare l’ordinamento della Repubblica a questo ribaltamento del rapporto tra politica ed economia. Evidente, infatti, è come questo processo non sia agevolato, ma anzi venga resistito da quel sistema di separazione e di policentrismo dei poteri, di pesi e contrappesi, di regole e di controlli, che caratterizza il costituzionalismo contemporaneo. Occorre uscirne, superare almeno il bicameralismo paritario e il conflitto permanente Stato-Regioni originato dalla riforma del titolo V della Costituzione. Maggiore concentrazione delle competenze legislative nello Stato, quindi, ma, contemporaneamente, riduzione degli organi parlamentari e verticalizzazione del potere in senso governativo: effetto, quest’ultimo, agevolato in maniera determinante anche dal nuovo sistema elettorale a forte carattere maggioritario, che darà al capo del governo il controllo pieno del 55 per cento della Camera, unico organo deputato a dare la fiducia a chi in realtà è il suo dominus.
Che il sistema attuale non sia abbastanza “decidente” è in buona misura propagandistico: se la maggioranza è coesa i tempi sono rapidi, tanto che l’attuale governo si vanta giustamente (a parte la discutibilità del merito) di aver approvato in due anni leggi che non si approvavano da venti: dal mercato del lavoro alla pubblica amministrazione, dalla Rai al sistema elettorale, alla stessa riforma costituzionale, perfino alle unioni civili. Ma, ammesso che non basti e che criticità permangano, la questione è come uscirne: come cambia la democrazia, appunto. Male, e non perché si sia conservatori dell’attuale “bicameralismo perfetto”: anzi molti critici auspicano il monocameralismo, effettivamente preferibile se accompagnato da forti contrappesi, come ad esempio una legge elettorale proporzionale con sbarramento. Male, invece, perché, nel merito, di gran lunga prevalenti sono gli aspetti critici.
Il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni è sbilanciato sproporzionatamente a favore dello Stato, che ha competenza esclusiva su equivoche “disposizioni generali e comuni” in una serie di materie (governo del territorio, istruzione, salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, attività culturali e turismo) e può inoltre intervenire anche in tutte le altre quando ravvisi esigenze di tutela non solo dell’unità giuridica o economica della Repubblica ma anche di un asserito “interesse nazionale”. In tutti questi casi, arbitrati dal Governo e dalla Camera, le Regioni si ridurranno a poco più che organi amministrativi, senza che su tale “demansionamento” possano intervenire i loro rappresentanti nel nuovo Senato.
Questo, invero, sarà bensì composto da sindaci (trasformati con un tratto di penna da semplici amministratori in legislatori part time) e consiglieri regionali, ma scelti in base ad appartenenze partitiche – per cui voteranno senza vincolo di mandato espressivo delle istituzioni regionali. Questa sorta di dopolavoro sarà privo di poteri effettivi nelle materie rilevanti per la realizzazione di un regionalismo solidale ma in compenso, pur senza investitura popolare come una Città Metropolitana qualunque, avrà potere perfino sulle riforme costituzionali ed eleggerà in proprio due giudici della Corte. E godrà, inoltre, di un potere interdittivo, al limite ostruzionistico, nei confronti della Camera nell’ambito della pluralità di procedimenti legislativi (se ne contano otto), che con un’eterogenesi dei fini ha trasformato la conclamata semplificazione in una inedita e pasticciata complicazione.
A dare la fiducia sarà solo la Camera: e questo va bene. Ma la maggioranza, grazie al cosiddetto Italicum a forte effetto maggioritario a favore di una sola lista, quella del presidente del consiglio, sarà sotto il controllo pieno del governo. La cui influenza sull’esercizio dell’attività legislativa sarà ulteriormente accentuata: infatti, alla già esistente possibilità di utilizzare i decreti-legge e i voti di fiducia anche su materie non rientranti nel suo programma (come di recente sulle unioni civili), alle già attuate forzature parlamentari come il contingentamento dei tempi di discussione e i maxiemendamenti o emendamenti –canguro (che vanificano l’obbligo costituzionale di approvare le leggi articolo per articolo), si aggiungerà ora il voto con priorità e a data certa sui disegni di legge dichiarati dal governo come essenziali per l’attuazione del suo programma. La Camera diventerà, in sostanza, un organo di ratifica dell’operato del governo.
Per riepilogare: a) la funzione legislativa si sposta in una serie di materie nominate, e anche nelle altre tutte le volte che il Governo ravvisi un interesse nazionale, dalle periferie al centro; b) qui, nella stragrande maggioranza dei casi, la competenza esclusiva a legiferare è della sola Camera, a maggioranza – grazie al sistema elettorale fortemente maggioritario - della lista governativa; c) perciò a condurre gli equilibri, a cominciare dall’ordine del giorno, è il Governo e, in particolare, il suo capo, leader della lista di maggioranza. Questa vertiginosa concentrazione di potere sarà favorita poi dall’indebolimento dei tradizionali contrappesi conseguente alla diminuzione del numero dei parlamentari: il quale determinerà, infatti, un forte abbassamento dei quorum previsti per l’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM (da 570 voti a 438, destinati ad abbassarsi se calcolati sui soli votanti) e dei giudici costituzionali (da 570 ad appena 60 per quelli eletti dal Senato e a 378 per quelli della Camera, praticamente alla portata dei 340 voti della lista di maggioranza).
Altri punti critici sono stati condivisibilmente evidenziati da chi si oppone alla riforma e non è il caso, quindi, di ripeterli. Interessa piuttosto evidenziare che questo cambiamento in senso centralistico e verticistico della democrazia viene motivato come funzionale al miglior controllo delle politiche di spesa e alla diminuzione così del debito pubblico. Che è ciò che volevasi dimostrare: il ribaltamento del rapporto tra politica ed economia. E in ragione di questo obiettivo à la page si dovrebbe passar sopra alle illogicità, incongruenze o, eufemisticamente, “imprecisioni” della riforma: che perciò non è da “sacralizzare” ma anzi da sottoporre a “successive modifiche migliorative” (così, per citare un fautore non politico, il gesuita Occhetta sulla “Civiltà cattolica”). Ma questo calumet della pace, offerto per sdrammatizzare, non funziona. Invero, proprio la previsione di modifiche, nel momento stesso di approvarla, riduce la Costituzione ad una legge tra le altre, transitoria e priva di rigidità, miope e non presbite, nella disponibilità delle maggioranze del momento.
Che le revisioni della Costituzione non debbano essere espressione di un contingente indirizzo di governo, e che quindi il referendum non debba trasformarsi in un prebiscito a suo favore o contro, è concetto confinato ormai tra le cianfrusaglie dal nuovo costituzionalismo à la carte, che si fa strada all’insegna dell’”abbiamo i numeri”. E’ la “monarchia del Numero”, contro la quale metteva in guardia Tocqueville, che sostituisce “la superiorità della determinazione in sede di Costituzione di fronte alle effimere maggioranze parlamentari” (citazione sorvegliata: non è di uno dei “professoroni”, ma di uno dei “professorini” alla Costituente, Aldo Moro).
Nicola Colaianni