La strategia dei fautori della riforma è chiara, enunciata senza
mezzi termini dal presidente del Consiglio: «da una parte ci saremo noi,
il partito del cambiamento, dall’altra loro, i difensori della casta,
e gli italiani non avranno dubbi». Spetta agli oppositori decidere se
accettare questo terreno di scontro avversando il nuovo che avanza in
nome di nobili principi calpestati, esponendosi però così all’accusa di
conservatorismo; oppure valutare se vi siano le forze e la voglia di
cambiare registro, giocando la partita referendaria non in difesa, ma
all’attacco. In primo luogo denunciando l’incapacità della riforma
costituzionale ad affrontare la grave situazione di crisi dello Stato
costituzionale. Modifiche costituzionali che risultano inadeguate poiché
si pongono in forte continuità con quelle logiche regressive del
passato — per dirla in sintesi, rafforzamento dell’esecutivo
e svalutazione della rappresentanza — che ci hanno portato in questa
situazione di crisi, dalla quale è necessario fuoriuscire.
È una lotta dunque tra «noi, il partito del cambiamento e loro
i difensori della casta», per riprendere le espressioni tranchant del
Presidente del Consiglio, ovvero, più correttamente, una battaglia
contro i conservatori al potere.
Per far passare nell’opinione pubblica questo messaggio di verità,
nonostante l’evidente sproporzione di forze, credo sia necessario non
farsi attrarre dalla politica dell’illusionismo emotivo (fatta di slogan
e rissa mediatica), per provare a riflettere con serietà sui punti di
caduta del nostro ordinamento costituzionale, concentrando la nostra
attenzione sulle fragilità della democrazia contemporanea che sono
all’origine della crisi politica, sociale e morale del paese.
Due le questioni da porre al centro del dibattito. Da un lato, il tema
della crisi del ruolo del parlamento, privato della sua essenza e del
suo valore; dall’altro, il problema della rappresentanza politica,
svuotata dalla distanza sempre più preoccupante tra governati
e governanti.
La domanda da porre allora è la seguente: la riforma costituzionale
riesce ad invertire la rotta, a dare nuovo impulso alle due questioni
indicate sulle quali si regge la democrazia pluralista, oppure continua
a farci restare nel pantano?
Iniziamo dal parlamento. Si è modificato il bicameralismo perfetto.
Bene. Ma veramente si pensa — o si vuol far credere — che i mali del
parlamentarismo si possono affrontare passando dal bicameralismo
perfetto ad un bicameralismo confuso com’è quello che è stato
immaginato? Ci si può veramente illudere che la crisi del regime
parlamentare si possa affrontare intervenendo solo sulla redistribuzione
delle funzioni e sulla composizione delle due camere, non considerando
per nulla le ragioni strutturali che sono alla base dello svuotamento
del potere parlamentare?
Bisogna essere più radicali. È la forma di governo parlamentare che deve
essere ripensata, oggi in sofferenza a causa dello squilibrio nei
rapporti tra governo e parlamento, sbilanciamento a favore del primo e a
scapito del secondo. Il saggio revisore, il vero innovatore, anziché
favorire l’involuzione rafforzando i poteri dell’esecutivo e comprimendo
ulteriormente quelli del legislativo, dovrebbe fare esattamente
l’inverso. Bisognerebbe limitare e regolare lo strapotere del governo in
parlamento, intervenendo sul profluvio ingiustificato di richieste di
fiducia, sulla decretazione d’urgenza, sui maxiemendamenti, che umiliano
l’autonomia del parlamento e dei parlamentari; si dovrebbero riscrivere
i regolamenti, per regolare il dibattito parlamentare ed evitare
i tempi contingentati che impediscono il confronto; sarebbe necessario
assegnare alle opposizioni uno statuto ben definito e di garanzia,
ostacolando così le pratiche ostruzionistiche a volte impropriamente
utilizzate; appare urgente intervenire sull’organizzazione dei lavori
per ridefinire il rapporto tra commissioni e aula, ricollocando al
centro le commissioni — vero luogo di approfondimento e libera
discussione — rispetto all’aula che ormai non rappresenta altro che un
teatro della divisione, raffigurazione vuota e solo spettacolare del
nostro organo parlamentare e dei nostri — spesso scalmanati —
rappresentanti.
Certo si dovrebbe intervenire anche sulla struttura bicamerale. Ma —
nella prospettiva del rilancio del parlamentarismo — bisognerebbe essere
ben più radicali e coerenti. Tentare di riunificare la sovranità della
rappresentanza popolare: un unica camera eletta con un sistema
proporzionale. Chi se la sente di proporre una riforma rivoluzionaria
come questa? Eppure in passato era proprio questa la frontiera più
avanzata della sinistra. Poi la sinistra è evaporata e le frontiere sono
state aperte, scomparse dalla topografia politica.
Rispetto alla gravità della crisi del parlamento come ha operato il
nostro revisore costituzionale? Per dirla in sintesi: non ha scelto
nessun modello e ha approfittato della confusione per acquisire un po’
di potere in più a favore di chi attualmente — ma solo pro tempore — lo
detiene, favorendo il processo regressivo in atto.
Che non abbia scelto nessun modello appare chiaro se si guarda a come ha
differenziato il bicameralismo. Nulla ha toccato con riferimento alla
camera dei deputati, lasciando tutti i vizi che attualmente la
attraversano; rendendo invece il cenato un Ufo, un oggetto non
identificabile per struttura, funzioni, composizione. Poteva scommettere
sul rilancio del regionalismo italiano e invece ha svuotato le
competenze e i poteri degli enti territoriali. Si è proposto l’obiettivo
di semplificare il procedimento di formazione delle leggi ritenuto, non
a torto, troppo farraginoso nel sistema attuale di bicameralismo
perfetto, ed è riuscito nel capolavoro di passare da uno a dieci
distinti iter, aprendo la strada al moltiplicarsi dei ricorsi alla Corte
costituzionale, rendendo ancor più complesso far leggi in Italia. Ha
adottato, infine, un non-criterio di composizione dell’organo. Come
altro può definirsi, infatti, il compromesso (si fa per dire) definito
all’art. 57 che prima introduce il principio dell’elezione indiretta dei
senatori da parte dei consigli regionali, per poi smentire se stesso,
assegnando la scelta, con formula in realtà anodina, agli elettori,
rinviando poi tutto ad una futura legge bicamerale.
Ma, al di là delle critiche puntuali, delle improprietà tecniche, quel
che mi preme sottolineare è il dato di fondo: questa riforma non
è adeguata alla reale problematicità della crisi in atto, non ridarà
dignità al parlamento, né è il frutto di una buona politica
costituzionale.
Essa rappresenta, in continuità con il passato, un ulteriore passo
verso la sclerosi del sistema parlamentare. C’è bisogno di altro in
Italia. C’è bisogno di qualcuno che ridia speranza al futuro del
parlamentarismo, rilanciando le sue ragioni, ponendosi al passo con
i tempi, non abbandonandosi invece ad un triste declino d’addio.
Non basta. Non avremo un sistema parlamentare funzionante in Italia se
non saremmo in grado di affrontare con spirito veramente innovativo
anche la collegata questione della rappresentanza politica.
Come si può infatti pensare di porre al centro un parlamento se questo
dovesse continuare ad essere composto solo da anime morte?
Rappresentanti i cui legami con la realtà del rappresentato appaiono
sempre più compromessi.
Una democrazia rappresentativa sconvolta da un sistema elettorale, che —
in forte continuità con il passato — rende sempre più sfumato il
rapporto tra chi vota e chi è eletto. Ma deve essere anche detto che la
crisi della rappresentanza non è solo determinata da una brutta legge
elettorale. Se si vuole prospettare un reale cambiamento si deve alzare
lo sguardo per denunciare la progressiva autoreferenzialità della
politica, il coma profondo in cui sono caduti i corpi intermedi, il
sonno delle formazioni sociali, dei partiti in specie, la progressiva
verticalizzazione di tutti i poteri, l’inaridirsi e il burocratizzarsi
dei canali della partecipazione, la chiusura degli spazi politici. È del
fallimento della democrazia maggioritaria che dovremmo parlare.
Allargo troppo il discorso, ma a forza di semplificare siamo arrivati
alla politica dei tweet, alla Repubblica delle slide, alla richiesta di
plebisciti di carattere fiduciario e personale su questioni che
coinvolgono la qualità della nostra democrazia. Dovremmo tornare a porci
i problemi di governo delle democrazia pluraliste nella loro reale
complessità. Per fuoriuscire dal lungo regresso e tornare a parlare al
futuro. Il referendum costituzionale ne sarà l’occasione?