Superare lo stallo che sta imballando il parlamento sui giudici
costituzionali non sembra difficile. Basterebbe abbandonare la logica —
escludente — della conta all’ultimo numero e assumere la logica —
includente — della ricerca del compromesso.
Che questo cambio di atteggiamento non venga dal governo è scontato.
Tutta l’esperienza renziana è apertamente connotata dal «muro contro
muro». Forte di una maggioranza parlamentare tanto abnorme quanto
incostituzionale (per meglio dire: abnorme proprio in quanto
incostituzionale), Renzi ha sempre optato per la soluzione muscolare. Il
caso più evidente — e drammatico — è quello della revisione
costituzionale, imposta a colpi di maggioranza senza mai realmente aver
ascoltato le proposte avanzate dalle opposizioni. Risultato: un testo
inguardabile, pessimo nel contenuto e illeggibile nella formulazione,
che produrrà risultati contrari a quelli auspicati dai suoi stessi
promotori (su tutti: la moltiplicazione dei procedimenti legislativi in
nome della semplificazione).
Diversa dovrebbe essere la prospettiva da cui il presidente della
Repubblica guarda all’impasse in cui è precipitato il parlamento. Forte
della sua storia, della sua cultura, della sua stessa collocazione
istituzionale, Mattarella è nella condizione di rimettere in
circolazione l’idea che il confronto parlamentare non possa esaurirsi
nel momento della decisione, ma debba far proprio, valorizzandolo
opportunamente, lo strumento della discussione. In democrazia, la
decisione non può essere un valore in sé: altrimenti è sopraffazione. La
decisione assume valore alla luce del percorso che la precede: è la sua
capacità di farsi sintesi delle diverse prospettive in conflitto
a renderla accettabile, anche agli occhi di chi la subisce. Il
presidente della Repubblica è garante dell’unità nazionale, e come tale
deve agire: a fronte di una maggioranza parlamentare che crea divisioni
sempre più profonde (persino al proprio interno) è necessario che
riscopra la funzione unificante della Costituzione, e se ne faccia
promotore. A iniziare dalla questione, istituzionalmente delicatissima,
della composizione della Consulta.
D’altro canto, l’idea stessa di decidere la composizione della Corte
costituzionale con l’intento di condizionarne le future sentenze
è quanto di più lontano dallo spirito costituzionale ci possa essere. La
Consulta è un classico contropotere, uno strumento di riequilibrio che
l’epoca iper-maggioritaria, in cui stiamo vivendo, rende ancora più
necessario. Per questo, i primi a sottrarsi al gioco perverso del
governo dovrebbero essere i costituzionalisti, tanto più se dotati di
profili scientifici di altissimo livello, come alcuni dei candidati in
gioco.
È giunto il momento di prendere di petto il germe decisionista che
sempre più sta ammorbando il nostro sistema costituzionale. La
democrazia non può ridursi a pratica che si consuma una volta ogni
cinque anni, in occasione delle elezioni. La democrazia o è processo
continuo o non è. Il rischio che diventi momento plebiscitario,
a ratifica di decisioni già assunte da chi ha ricevuto l’investitura
a Capo (per usare il lessico fascista rispolverato dall’Italicum), è già
attuale. Senza contare, poi, che tra le più illustri vittime del
decisionismo vi è — paradossalmente — la stessa capacità di decidere,
come chiaramente dimostra l’attuale blocco sull’elezione dei tre giudici
costituzionali. Ma, come potrebbe essere diversamente? Come ci si può
illudere che una forza sociale minoritaria possa diventare forza
politica efficace semplicemente drogandone a dismisura la rappresentanza
parlamentare? Altro è introdurre dei correttivi, altro
è l’artificialismo più sfrenato in cui siamo precipitati.
Occorre riscoprire il realismo della politica. Se un corpo elettorale
non esprime una maggioranza, nemmeno tendenziale, bisogna prenderne atto
e ricercare un compromesso in parlamento. È così che si fa in tutte le
democrazie: dal Regno Unito, alla Germania, alla Francia. Persino negli
Stati Uniti, dove pure vige il presidenzialismo. Noi siamo passati da un
eccesso all’altro: abbiamo avuto la forma di governo più includente;
ora, con la revisione costituzionale e l’Italicum, andiamo verso la più
escludente. Nella parabola svalutativa della parola «compromesso» — da
sinonimo di «dialogo» a sinonimo di «tradimento»: visione che oggi
accomuna tutte le principali forze politiche — può essere letta la
distanza che segna l’odierna idea di democrazia dall’idea contenuta
nella Costituzione. Sarebbe ora che chi ha la responsabilità delle più
alte cariche istituzionali rimetta in moto il pendolo: la vicenda dei
giudici costituzionali è un’ottima occasione per sottolineare come,
nella logica della Costituzione, decisioni di questo genere non possono
che venire da un compromesso tra tutte le principali forze politiche
presenti in parlamento.