L’«economia che uccide» di cui parla il papa la vediamo al lavoro in questi giorni, in diretta, da Bruxelles. Ed è uno spettacolo umiliante. Non taglia le gole, non ha l’odore del sangue, della polvere e della carne bruciata. Opera in stanze climatizzate, in corridoi per passi felpati, ma ha la stessa impudica ferocia della guerra. Della peggiore delle guerre: quella dichiarata dai ricchi globali ai poveri dei paesi più fragili. Questa è la metafisica influente dei vertici dell’Unione europea, della Bce e, soprattutto, del Fondo monetario internazionale: dimostrare, con ogni mezzo, che chi sta in basso mai e poi mai potrà sperare di far sentire le proprie ragioni, contro le loro fallimentari ricette.
La «trattativa sulla Grecia», nelle ultime settimane, è ormai
uscita dai limiti di un normale, per quanto duro, confronto
diplomatico per assumere i caratteri di una prova di forza. Di una
sorta di giudizio di dio alla rovescia.
Già le precedenti tappe avevano rivelato uno scarto rispetto a un
tradizionale quadro da «democrazia occidentale», con la costante
volontà, da parte dei vertici dell’Unione, di sostituire al
carattere tutto politico dei risultati del voto greco e del mandato
popolare dato a quel governo, la logica aritmetica del conto
profitti e perdite, come se non di Stati si trattasse, ma ormai
direttamente di Imprese o di Società commerciali.
Ha ragione Jürgen Habermas a denunciare lo slittamento – di per sé devastante – da un confronto tra rappresentanti di popoli in un quadro tutto pubblicistico di cittadinanza, a un confronto tra creditori e debitori, in un quadro quasi-privatistico da tribunale fallimentare. Era già di per sé il segno di una qualche apocalisse culturale la derubricazione di Alexis Tsipras e di Yanis Varoufakis da interlocutori politici a «debitori», posti dunque a priori su un piede di ineguaglianza nei confronti degli onnipotenti «creditori».
Ma poi la vicenda ha compiuto un altro giro. Christine Lagarde ha impresso una nuova accelerazione al processo di disvelamento, alzando ancora il tiro. Facendone non più solo una questione di spoliazione dell’altro, ma di sua umiliazione. Non più solo la dialettica, tutta economica, «creditore-debitore», ma quella, ben più drammatica, «amico-nemico», che segna il ritorno in campo della politica nella sua forma più essenziale, e più dura, del «polemos».
In effetti non si era mai visto un creditore, per stupido che esso sia, cercare di uccidere il proprio debitore, come invece il Fmi sta facendo con i greci. Ci deve essere qualcosa di più: la costruzione scientifica del «nemico». E la volontà di un sacrificio esemplare.
Un auto da fé in piena regola, come si faceva ai tempi dell’Inquisizione, perché nessun altro sia più tentato dal fascino dell’eresia.
Leggetevi con attenzione l’ultimo documento con le proposte greche e le correzioni in rosso del Brussels group, pubblicato (con un certo gusto sadico) dal Wall Street Journal: è un esempio burocratico di pedagogia del disumano.
L’evidenziatore in rosso ha spigolato per tutto il testo cercando, con maniacale acribia ogni, sia pur minimo, accenno ai «più bisognosi» («most in need») per cassarlo con un rigo. Ha negato la possibilità di mantenere l’Iva più bassa (13%) per gli alimenti essenziali («Basic food») e al 6% per i materiali medici (!). Così come, sul versante opposto, ha cancellato ogni accenno a tassare «in alto» i profitti più elevati (superiori ai 500mila euro), in omaggio alla famigerata teoria del trickle down, dello «sgocciolamento», secondo cui arricchire i più ricchi fa bene a tutti!
Ha, infine, disseminato di rosso il paragrafo sulle pensioni,
imponendo di spremere ulteriormente, di un altro 1% del Pil — e da
subito! — un settore già massacrato dai Memorandum del 2010 e del
2012.
Il tutto appoggiato sulla infinitamente replicata
falsificazione dell’età pensionabile «scandalosamente bassa»
dei greci (chi spara 53 anni, chi 57…). Il direttore della
comunicazione della Troika Gerry Rice, durante un incontro con la
stampa, per giustificare la mano pesante, ha addirittura
dichiarato che «la pensione media greca è allo stesso livello che in
Germania, ma si va in pensione sei anni prima…».
Una (doppia) menzogna consapevole, smentita dalle stesse fonti statistiche ufficiali dell’Ue: il database Eurostat segnala, fin dal 2005, l’età media pensionabile per i cittadini greci a 61,7 anni (quasi un anno in più rispetto alla media europea, la Germania era allora a 61,3, l’Italia a 59,7).
E sempre Eurostat ci dice che nel 2012 la spesa pensionistica
pro capite era in Grecia all’incirca la metà di Paesi come l’Austria
e la Francia e di un quarto sotto la Germania.
Il Financial Times ha dimostrato che «accettare le richieste dei
creditori significherebbe per la Grecia dire sì ad un
aggiustamento di bilancio… pari al 12,6% nell’arco di quattro anni,
al termine dei quali il rapporto debito-PIL si avvicinerebbe al
200%». Paul Krugman ha mostrato come l’avanzo primario della Grecia
«corretto per il ciclo» (cyclically adjusted) è di gran lunga il più
alto d’Europa: due volte e mezzo quello della Germania, due punti
percentuali sopra quello dell’Italia.
Dunque un Paese che ha dato tutto quello che poteva, e molto di più. Perché allora continuare a spremerlo?
Ambrose Evans-Pritchard – un commentatore conservatore, ma non
accecato dall’odio – ha scritto sul Telegraph che i «creditori
vogliono vedere questi Klepht ribelli (greci che nel Cinquecento si
opposero al dominio ottomano) pendere impiccati dalle colonne del
Partenone, al pari dei banditi», perché non sopportano di essere
contraddetti dai testimoni del proprio fallimento. E ha aggiunto
che «se vogliamo datare il momento in cui l’ordine liberale
nell’Atlantico ha perso la sua autorità – e il momento in cui il
Progetto Europeo ha cessato di essere una forza storica capace di
motivare – be’, il momento potrebbe essere proprio questo».
È difficile dargli torto.
Non possiamo nasconderci che quello che si consuma in Europa in
questi giorni, sul versante greco e su quello dei migranti, segna un
cambiamento di scenario per tutti noi.
Sarà sempre più difficile, d’ora in poi, nutrire un qualche
orgoglio del proprio essere europei. E tenderà a prevalere, se
vorremo «restare umani», la vergogna.
Se, come tutti speriamo, Tsipras e Varoufakis riusciranno a portare a casa la pelle del proprio Paese, respingendo quello che assomiglia a un colpo di stato finanziario, sarà un fatto di straordinaria importanza per tutti noi.
E tuttavia resterà comunque indelebile l’immagine di un potere e di un paradigma con cui sarà sempre più difficile convivere. Perché malato di quel totalitarismo finanziario che non tollera punti di vista alternativi, a costo di portare alla rovina l’Europa, dal momento che è evidente che su queste basi, con queste leadership, con questa ideologia esclusiva, con queste istituzioni sempre più chiuse alla democrazia, l’Europa non sopravvive.
Mai come ora è chiaro che l’Europa o cambia o muore.
La Grecia, da sola, non può farcela. Può superare un round, ma se non le si affiancheranno altri popoli e altri governi, la speranza che ha aperto verrà soffocata.
Per questo sono così importanti le elezioni d’autunno in Spagna e in Portogallo.
Per questo è così urgente il processo di ricostruzione di una sinistra italiana all’altezza di queste sfide, superando frammentazioni e particolarismi, incertezze e distinguo, per costruire, in fretta, una casa comune grande e credibile.