L’Unione, già Comunità (che vuol dire mettere le proprie risorse in comune) Europea, si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Forse si è già dissolta. A prima vista la causa più evidente del fallimento è la cosiddetta «crisi migratoria».È evidente che trattare decine o centinaia di migliaia di esseri umani come pacchi, come un peso da scaricarsi l’un l’altro e facendo finta, a ogni nuovo arrivo, di affrontare il problema per la prima volta, non è una politica lungimirante.
L’Ue non ha combattuto le politiche di Orbàn quando era ora di farlo, mentre aveva a suo tempo condannato quelle dell’austriaco Haider (ma non quelle di Bossi quando per la Lega l’Unione era già “Forcolandia”). Così ha creato nel suo seno i Salvini, e i molti come lui, in tutto il continente. L’establishment europeo è stato accecato dalla sua “cultura economica”, pensando che il “resto”, l’unità politica, seguisse automaticamente (l’intendence suivra…). Così è passato come un carro armato sulla Grecia (culla della sua “civiltà”) per salvare qualche banca francese o tedesca e ora, dopo aver subito senza reagire la “brexit”, rischia di venir trascinata nel baratro dall’Italia: nazione “fondatrice” dell’Unione, ma Stato quasi fallito. Per cui, se l’Italia e i suoi abitanti sono un vuoto a perdere, con i migranti se la vedano loro…
Eppure nel dopoguerra la ricostruzione dell’Europa, quella che aveva dato vita alla Comunità europea, era stata in gran parte opera di immigrati (metà profughi dell’Est europeo, metà provenienti dalle sponde Nord, Italia compresa, e Sud del Mediterraneo). Immigrati erano stati anche i protagonisti dei “miracoli economici” degli anni ‘60 e della successiva ancorché parziale ascesa dell’Unione a potenza (economica) mondiale. La svolta è arrivata con la crisi del 2008, che ha portato alla luce pulsioni represse da tempo. L’Unione l’ha affrontata con l’austerità, rinunciando con ciò a un ruolo da protagonista; e da allora i migranti – sia profughi, di guerra e, sempre più, anche ambientali, sia gente affamata in cerca di un lavoro – hanno cominciato a venir trattati come la peste. Le destre europee, e il popolo dei social e degli stadi che le segue, lo fanno apertamente, spesso con un linguaggio che è ormai, e in modo ostentato, nazista. Gli altri, le forze “istituzionali”, lo fanno in modo ipocrita, cercando di nasconderlo. Ma, per tutti, profughi e “migranti economici” sono solo un peso e come tali vengono trattati. Da loro c’è solo da ricavare qualche occasione per sfruttarli meglio per ripagarsi del fatto di non essere riusciti a scacciarli.
Così, al centro delle prossime elezioni europee, ma soprattutto di un ben più importante confronto sul futuro delle nostre vite e della convivenza, ci saranno loro, i migranti; o, meglio, la capacità o meno di disfarsene; o la promessa di essere più bravi nel farlo. Privi di alternative, centro e “sinistre” non faranno che accodarsi alle ricette delle destre. Affrontare questa partita aggrappandosi alla zattera che affonda delle sinistre europee e al loro rosario di desiderata mai contestualizzati, mai veramente perseguiti e quasi sempre rinnegati – lavoro, welfare, diritti, istruzione, ricerca… – vuol dire averla già persa. Lo scontro tra accogliere e respingere è già deciso perché dietro ad “accogliere” non c’è né un programma per il “dopo” – che fare di e con chi viene accolto? – né il progetto di un’Europa diversa da quella che c’è; mentre dietro a “respingere” c’è un progetto preciso, anche se mai dichiarato: il trattamento riservato oggi ai migranti è quello in serbo anche per la maggioranza di noi. Perché che cosa ne sarà dell’Europa di domani, qualsiasi strada imbocchi, non riguarda solo i migranti ma tutti noi.
Dunque, se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’austerity che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare.
A essere bloccata è la conversione ecologica: la capacità di indirizzare forze e pensieri alle misure per far fronte ai cambiamenti climatici e a un degrado ambientale irreversibili. È l’unica scelta in grado di restituire un ruolo all’Europa, ma che è anche senza alternative che non siano la rovina del pianeta e dell’umanità e una guerra permanente contro i migranti destinata a provocare milioni di morti e ad alimentare reclutamenti di massa da parte di formazioni terroristiche. Ma è una svolta che non può più essere affidata a Governi e imprese che hanno dimostrato di non saperla affrontare. Solo quei movimenti attivi nella difesa dei territori e nel sostegno ai migranti, che sono molti e variegati, ma dispersi e scollegati, possono mettere all’ordine del giorno l’intera questione in modo concreto, con buone pratiche e un confronto aperto. Se sapranno farlo potranno riorientare anche una parte di quelle forze politiche e delle istituzioni, a partire dai governi locali, che hanno da tempo perso ogni contatto con la realtà.
La conversione ecologica non può che essere un processo partecipato e svilupparsi a partire dal livello locale, avendo però di mira tutto il pianeta. Ma di esso profughi e migranti sono una componente essenziale, perché possono portare un grande contributo alla realizzazione dei milioni di interventi diffusi necessari (l’opposto delle Grandi opere e dei grandi eventi dell’attuale modello di “sviluppo”); soprattutto se il finanziamento di quegli interventi sarà legato all’inclusione di una consistente quota di migranti tra la manodopera da coinvolgere e non da sfruttare. Assisteremmo allora a una corsa per “accaparrarseli”, mentre continuando a trattare come ora la popolazione immigrata stiamo trasformando l’Europa in un grande campo di concentramento (da gestire accanto alla vita che si svolge “come sempre “), ma anche in un campo di battaglia.
Ma i migranti sono una componente essenziale della conversione ecologica anche perché il loro coinvolgimento è una strada obbligata per la rigenerazione dei loro territori di origine, a cui molti di loro vorrebbero poter tornare e con le cui comunità molti altri mantengono dei contatti. Il risanamento ambientale e sociale (la partecipazione) di quei territori ha bisogno di nuovi attori, che possono essere solo loro; certo non gli attuali Governi locali o quelli che se ne stanno appropriando in continuità con le politiche coloniali del secolo scorso; e meno che mai le multinazionali che ne stanno devastando il territorio: cioè tutti quelli del “prima noi”, non solo qui, ma anche “a casa loro”.