In Libano ci sono 1,6 milioni di profughi siriani (oltre a 500mila palestinesi, lì da decenni): il 36 per cento (il 48, con i palestinesi) della popolazione; in Giordania ce ne sono 600mila (su 6 milioni di abitanti, oltre a 1,7 milioni di palestinesi). In Turchia 650mila; in Iraq 250mila; in Iran 2 milioni (più tutti gli afgani). All’interno della Siria gli sfollati sono 6,5 milioni. In Egitto i profughi di diversa provenienza sono oltre 500mila; in Libia non si sa: secondo il procuratore di Palermo Scalia circa un milione. In Nigeria Boko Haram, ma anche Eni e Shell, hanno creato 3,2 milioni di profughi: metà è già in Ciad, Camerun e Niger; metà sta cercando di fuggire. Difficile, in questi disastri, distinguere profughi di guerra, profughi ambientali e “semplici” migranti. Poi c’è un milione di profughi del Donbass: metà in Russia, metà in Ucraina. UNHCR (l’agenzia dell’ONU che si occupa dei profughi), Croce rossa e Mezzaluna rossa stanno finendo i fondi per assisterli, peraltro, in condizioni insostenibili: 41 per cento dei giovani “ospitati” in quei campi profughi, dice un’inchiesta, pensa al suicidio come unica via di uscita. Perché dietro quei numeri ci sono delle persone: donne, vecchi, bambini, uomini sfiancati.
E’ una situazione destinata a porre fine per sempre, in Europa, all’idea di una “normalità” delle nostre vite. Perché i “flussi” visti finora sono destinati a moltiplicarsi. Ma quei profughi non sono migranti: tutti o quasi vorrebbero tornare a casa loro quando tornerà la pace. Ma sanno che non tornerà per molti anni. Nel frattempo cercheranno in tutti i modi di raggiungere l’Europa, anche a rischio della vita. Non hanno alternative. Inoltre, molti di loro vedono nell’Europa un retroterra, la zona forte di un’area che abbraccia Mediterraneo, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, mentre noi europei non sappiamo ancora vedere in quei territori martoriati, in gran parte dalle nostre guerre, una propaggine delle nostre società. Ma che cosa fa l’Europa e chi governa? Dichiara guerra ai profughi. Ai profughi, non agli scafisti. Bloccare gli scafisti (oggi in Libia, domani chissà dove), posto che sia fattibile, significa condannare centinaia di migliaia di fuggiaschi a rimanere dove sono: alla fame, al freddo e al caldo soffocante; spesso in preda a regimi o bande che li torturano, li rapinano, le stuprano, li uccidono. Fermarli prima che raggiungano la Libia, o altri porti, è ancora peggio: vuol dire allargare il fronte di guerra agli “scafisti del deserto”. Se tante persone fuggono, sapendo che cosa li aspetta, è perché non hanno altra scelta. Voi che cosa fareste al loro posto? Respingerli significa condannarli a morte. Il popolo tedesco e chi viveva accanto ai campi di sterminio sapevano. Sapevano anche i governi alleati che non bombardavano le ferrovie germaniche per non dover accogliere, a guerra finita, gli ebrei sopravvissuti. Ma neanche Hitler, all’inizio, voleva sterminare gli ebrei; voleva spedirli in Madagascar. Poi…Oggi chi invoca i respingimenti sa benissimo di proporre uno sterminio. Se i profughi noi non li vogliamo, come è possibile costringere a “tenerseli” tanti Stati più fragili dei nostri, senza che ciò significhi autorizzarli a sbarazzarsene in qualsiasi modo?
C’è un’alternativa a tutto ciò? C’è se si ammette che per noi, in Europa, è finita per sempre la “normalità”. Sette anni di crisi, d’altronde, un po’ ce lo hanno insegnato. Non basta proporre corridoi umanitari perché profughi e fuggiaschi raggiungano in sicurezza le loro mete. Questo affronta (e non risolve) il “prima”. Ma che ne è del “poi”? Si possono gestire centinaia di migliaia di profughi, e poi forse milioni, con i CIE, i CARA, gli SPRAR? E affidare a ladri di Stato come Buzzi o le associazioni di Alfano la gestione di un sistema che tiene lì a far niente, per anni, persone in gran parte giovani e sane, esibendole in questo ozio forzato a una popolazione aizzata a considerarle nient’altro che un peso? E trasformando la polizia in “scafisti di Stato” per aiutarle a passare i confini, o farle “scappare” in massa dai centri, o lasciarle ad “arrangiarsi” in mezzo alla strada, perché la convenzione di Dublino prescriverebbe all’Italia di trattenerle per sempre sul proprio suolo? Solo ora i governi dell’Unione cominciano a realizzare che quei flussi non si possono fermare nel modo facilone e criminale su cui hanno trovato l’accordo: sorveglianza armata alle frontiere e guerra agli scafisti. E allora si “sfilano”, uno dopo l’altro, dagli obblighi di solidarietà interstatuale (e se mai accetteranno delle quote, sarà solo per controllare che tutto il “resto” non possa più sconfinare: per l’Italia sarebbe ancor peggio). I profughi? se la veda il paese dove sbarcano! Ma questa ripulsa della solidarietà interstatuale suona a morto per l’Unione. E se Renzi non ha sollevato la questione quando ne era alla Presidenza, è perché rappresenta più di tutti quella cultura da ragionieri che la sta distruggendo con l’austerity, e che ora pretende di risolvere un problema geopolitico di dimensioni planetarie affondando dei barconi di legno con apparati da guerre stellari.
L’alternativa, allora, è un grande e lungimirante piano di cooperazione allo sviluppo. Quei profughi vogliono tornare a casa loro; molti hanno dei legami con famiglie o comunità già insediate in Europa, ma quasi tutti manterranno anche, come e quando potranno, solidi legami con le comunità da cui sono fuggiti. Adeguatamente assistiti e controllati, possono gestire autonomamente strutture e fondi destinati alla loro permanenza in Europa. Se ben distribuiti sul territorio e protetti con un contrasto efficace alle campagne razziste, possono integrarsi nel tessuto sociale, tessere relazioni, imparare lingua e mestieri, mandare i bambini e i ragazzi a scuola (strumento fondamentale di inclusione). Se coinvolti in piani per dare lavoro a milioni di disoccupati, italiani ed europei – indispensabili per arginare gli effetti della crisi - possono concorrere a creare ricchezza. Se autorizzati e aiutati a organizzarsi, per comunità nazionali, possono costituire con le loro relazioni la base sociale e politica indispensabile per un ritorno alla pace e alla “normalità” dei loro paesi (altro che terroristi! Chi attraversa vicende del genere è il più grande amico della pace che si possa incontrare). Con loro diventerebbe possibile costruire una rete di relazioni per dare finalmente corpo a una grande comunità euromediterranea. “Andiamo ad aiutarli nei loro paesi, così non emigrano più” è l’ultimo alibi di chi non vuole proprio vederli. Ma per noi andare in quei paesi è sempre più rischioso, se non impossibile; e i progetti di cooperazione sono da sempre, nel migliore dei casi, iniziative di nicchia, di nessuna efficacia sull’insieme della popolazione (quando non sono vere e proprie ruberie a spese delle comunità “assistite”). Quale occasione migliore, allora, per un grande programma di cooperazione mediterranea, lavorando e progettando insieme, con le persone che sono già qui per sopravvivere?